La Pasqua del detenuto Barnier

Articolo

9 maggio 1957. Un uomo dallo sguardo deciso e dal passo sicuro scende nella piccola stazione di Mérenvielle. È diretto verso il monastero cistercense. Si chiama Jean Bernier, nome noto alle cronache giudiziarie del tempo, per aver trascorso gli anni migliori della sua giovinezza in varie carceri dello stato. Ha una quarantina d’anni. Come mai si trova lì, in un luogo di preghiera e di rinuncia, quell’uomo abituato a menar le mani, che aveva fama di essere stato un boss della malavita? Non ha l’aria di fuggire il mondo per paura di qualcosa o di qualcuno. Soprattutto ora che, scontata l’ultima briciola di pena, può tornare libero. Sembra piuttosto sospinto da una arcana forza interiore. È un uomo diverso, un altro Jean, quello che bussa alla porta del monastero, chiedendo di esservi accolto, e di essere soggetto ad una delle regole monastiche più austere che si conoscano. Nelle ore di solitudine trascorse in carcere, ha avuto modo di riflettere. Capita, talvolta. È quando non capisci più il senso delle cose che fai, quando senti qualcosa che sfugge alla presa, ma che sai che c’è, perché appare e scompare quando meno te l’aspetti. Dal buco nero dell’anima, qualcosa, meglio Qualcuno, si fa sentire, e tu riconosci quella voce in mezzo alle altre che normalmente stazionano dentro di te. È troppo diversa. La storia di Jean Bernier è tutta qui: si è lasciato catturare da un Altro che ha bussato alla sua porta, chiedendogli di entrare. Quel 9 maggio 1957 segnerà il tramonto di una vita sballata ed insieme l’aurora di una vita donata. Io però – spiega pochi mesi prima della sua morte – non mi sono fatto monaco per espiare, ma per amare. Jean Bernier era nato a Blois, nel 1917. Suo padre era fornaio, e doveva lavorare sodo per mantenere i suoi sei figli. La mamma contribuiva al bilancio come domestica. Il giovane Jean veniva su sano e forte con un carattere un po’ ribelle ed insofferente, ma fondamentalmente era buono: Sono stato allevato nella fede cristiana, ma i miei non erano praticanti. Quando, per un colpo di testa ho rotto con il mio curato, i miei non mi hanno rimproverato. Avevo dodici anni. Ancora ragazzo, Jean perde i genitori, la nonna e una sorella maggiore: Mi ritrovo praticamente solo a badare a me stesso. Imparo il mestiere di fabbro ed inizio a lavorare. A vent’anni, ancora un colpo di testa: Decido di arruolarmi in aviazione. Mi piaceva, perché amavo la libertà. Anche quella volta, il mio temperamento fiero, che non sopportava le ingiustizie, mi giocò un brutto tiro. Appena poco tempo dopo la mia ferma, vengo processato e condannato a sei mesi di carcere per rissa con un sottufficiale . Venne mandato nel carcere di Loos, nei pressi di Lille. Si trovò in un’abbazia cistercense del XII secolo adibita a penitenziario dopo la rivoluzione francese. Del resto, la stessa sorte era capitata alla più famosa Chiaravalle, fondata nel 1115 da Bernardo, diventata poi la casa madre di numerosi monasteri. Saranno probabilmente questi luoghi dalle muira solide e dalle volte severe, destinati un tempo al silenzio ed alla preghiera, a dare un primo colpo al giovane detenuto. La sua tuttavia non sarà una resa facile. Dal 1938 al 1957, Jean trascorrerà dietro le sbarre ben dodici anni. Per furto, truffa, rapina a mano armata… In contatto con la malavita parigina, gli sarà inflitta anche un’odiosa condanna per istigazione alla prostituzione e sarà classificato come indesiderabile dal governo di Vichy. Verrà inviato nel 1944 in Germania per lavorare in una fabbrica. Si ribellerà anche lì, e perciò verrà condannato ai lavori forzati. Anche qui non mancherà di farsi notare quest’uomo spavaldo ed insieme generoso, che non sopporta le ingiustizie e lotta a modo suo. Sotto gli occhi stupiti di una SS, i suoi compagni di corvée lo vedranno prendersi in spalle uno di loro stramazzato a terra per la fatica. Finita la guerra, di ritorno in Francia, Jean riprenderà le sue attività. Arrestato di nuovo, avrà modo di soggiornare nelle più varie carceri: La Santé, Fresnes, Bourges, Poissy. Il detenuto Bernier viene tenuto sott’occhio: ci vuol poco per vederlo esplodere e sferrare uno dei suoi noti pugni micidiali, persino contro il personale dell’amministrazione carceraria. Il suo comportamento varrà ad allungargli la pena. Ma è proprio durante questi lunghi anni di deriva che avviene il cambiamento. Un segno lo si trova in un suo scritto di quei tempi: Lo smarrimento di un uomo in una vita di delinquenza non costituisce la totalità della sua persona. C’è del buono in lui, ed occorre farglielo scoprire. Sarà, la sua, una scoperta lenta, dolorosa. A Fresnes, la notizia della conversione di due detenuti gira per il carcere, cosicché più tardi si risveglia in lui il desiderio di pregare. Ma sarà nel suo ultimo luogo di detenzione, all’Île de Ré, che avrà luogo il suo combattimento di Giacobbe. Diventa amico di due fratelli corsi, Ange e Joseph, che gli offrono in prestito alcuni libri da leggere, e tra questi uno dal titolo difficile: Apologetica cristiana. La lettura lo induce a riflettere sul perché delle ingiustizie e della cattiveria dell’uomo. Trova in sé ben annidata una buona dose di questa cattiveria, e chiede al direttore del carcere di essere messo in isolamento. Ho – gli spiega – tanta violenza in corpo, che non esiterei un istante a tagliare la gola a un tizio. Viene accontentato. Solo, in cella, Jean lotta contro una voce segreta, sottile ma insistente, che lo rimprovera per gli errori della sua vita passata: Non volevo arrendermi alla verità. Un mattino mi trovo a terra in ginocchio, come spinto da una forza interiore. Mi ritornano sulle labbra le preghiere della mia infanzia che avevo dimenticato, e mi trovo a recitare il Padre Nostro e l’Ave Maria. Scoppio in un pianto dirotto, esclamando: Sì, ora riconosco tutto il male che ho fatto. Allora, tutte le parole di rimprovero che mi risuonavano dentro cedono il posto ad una grande pace, una gioia, una grazia, una presenza sensibile di Dio che non avevo mai provato. Esclamo: Mio Dio, ti dono tutta la mia vita come tu vorrai. Chiamo il cappellano e gli chiedo di confessarmi. Siamo, guarda caso, nella settimana santa, e la domenica, accostandomi alla comunione, sarà per me una vera Pasqua di resurrezione. Mi restavano ancora due anni di pena da scontare, e ne approfittai per approfondire la mia fede. Quando si avvicina l’ora della scarcerazione, Richard, uno dei due detenuti convertitisi a Fresnes, che aspira alla vita monastica, gli suggerisce di fare altrettanto. Jean ci pensa, e scrive all’abate di Sainte-Marie-du-Désert, che gli accorda un periodo di prova nella trappa. Ed è per questo che, il 9 maggio 1957, Jean Bernier scende alla stazione di Mérenvielle. Si festeggia quel giorno san Gregorio di Nazianzo, e sarà questo il nuovo nome che Jean vorrà prendere da religioso. Il padre abate, Jean de la Croix, lo attende davanti al portone d’ingresso. I due uomini si fissano negli occhi, e l’abate tende le sue braccia verso l’altro Jean. Hanno tutti e due la stessa statura e più o meno la stessa età. Da quel momento, non si potrà più distinguere tra i monaci quel frère Grégoire che per 45 anni – il tempo che gli resterà da vivere – si sforzerà ogni giorno di entrare per la porta stretta, via obbligata per accedere al Regno.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons