La parrocchia piena di migranti

Tempo natalizio, tempo di persone che lasciano le proprie case. Prima della sciagurata iniziativa di Sarkozy e Cameron del 2011, la Chiesa cattolica in Libia ha vissuto momenti di espansione straordinaria grazie ai rifugiati e ai lavoratori stranieri. Era il 2007.

Il venerdì qui si festeggia la domenica. E in fondo la cosa non dà troppo fastidio ai cristiani che, avendo il loro mistero pasquale distribuito sui tre giorni, possono trovare soddisfazione nel festeggiare il giorno del Signore in uno dei tre del weekend: in Israele possono festeggiare di sabato, il Sabbath; in un Paese musulmano, il venerdì, il giorno della morte del Cristo; la domenica tra i cristiani, perché è il ricordo della Pasqua. Questa comunità libica e cristiana è privilegiata nell’aver l’obbligo di festeggiare nel giorno della crocifissione e dell’abbandono di Gesù in croce.

È una vera sorpresa quella che vivo in questo venerdì a San Francesco. Raramente in una Chiesa locale, e non a San Pietro o in altri avvenimenti internazionali, ho capito meglio il senso della cattolicità della Chiesa, della sua universalità, dell’impatto incredibile che il cristianesimo conosce allorché s’imbatte in una cultura profondamente diversa da quelle occidentali.

La chiesa di San Francesco è il solo luogo di culto cattolico e cristiano aperto a Tripoli. Una costruzione degli anni Trenta, edificata su progetto di Florestano di Fausto, caratterizzata da una facciata a tre archi assai alti e da un tozzo campanile. Tutta bianca, ha solo qualche tocco di azzurro sul campanile e sulla facciata. E si popola di gente di tutti i colori. Nella giornata vedrò susseguirsi le messe delle comunità coreana (alle 9), di quelle prevalentemente africane (alle 10.30), di quella filippina (alle 15) e di quella francese (alle 17). Ogni volta la chiesa si riempie e risuona dei canti tipici di questa o quella tradizione. C’è un fervore assolutamente sconosciuto da noi, un calore che si trasmette nelle note e nelle strette di mano o negli abbracci per lo scambio della pace, nell’assistenza reciproca fuori dalla messa, nelle sigarette fumate assieme al termine delle celebrazioni, nelle lezioni di catechismo che occupano ogni anfratto disponibile nel presbiterio e nei locali attigui alla parrocchia, nel lavoro della cosiddetta “clinica”, nel centro sociale, nelle confessioni, nella riunione del Rinnovamento nello Spirito, in quella della Legio Mariae… Gli affreschi del Ventennio – belli non c’è che dire, assolutamente non pacchiani – seguono le varie celebrazioni con composta allegria.

chiesa-di-san-francesco-a-tripoli-foto-di-michele-zanzucchiVengo introdotto nel centro sociale dallo stesso vescovo, che dapprima mi fa conoscere una famiglia di sole donne eritree, fuggita dal Paese perché il papà era stato imprigionato (per il rifiuto di continuare il servizio militare dopo cinque anni di guerra e stenti) ed era fuggito, ma senza capire dove fosse finito. Dopo tre settimane di viaggio in un container attraverso il deserto, le cinque donne dai volti delicati e perfetti (di tre generazioni diverse) vivono ora presso altri eritrei immigrati clandestini, senza lavoro fisso, senza documenti, senza assistenza sanitaria, senza casa. Senza e basta.

Al Centro sociale – in cui lavorano soprattutto le suore delle diverse congregazioni che vivono a Tripoli – le accolgono, chiedono di cosa abbiano bisogno (cibo, coperte, alloggio, assistenza legale…), e poi le indirizzano alla “clinica”, alcune stanze al piano superiore dei locali parrocchiali in cui, all’ombra di statue di gesso di santi e madonne, medici e infermieri di diverse nazionalità (filippini, siriani, iracheni…) prestano volontariamente servizio per visitare gli immigrati come loro, dando le cure necessarie per i casi più semplici e indirizzando ad altri servizi pubblici per i casi più complessi. Le sindromi che vengono curate più frequentemente, come mi dice un medico filippino, sono quelle respiratorie leggere, dermatologiche, ortopediche e intestinali. Ma non mancano i malati di polmonite, quelli di Aids, persino non pochi tumori. Il tutto nell’allegra compagnia dei canti africani o in quelli oranti del Rinnovamento riuniti nei locali al piano terra.

Norma ha quarant’anni e un’aria da ragazzina. Ottimista, ha un figlio che frequenta il liceo. «Non è molto difficile la nostra vita qui in Libia – esordisce –, perché possiamo praticare la nostra fede e svolgere un lavoro retribuito correttamente. Io lavoro in un ospedale per malati mentali come infermiera. Ho lavorato prima in Arabia Saudita, e debbo dire che lì la situazione è molto più difficile, perché anche se ti pagano un po’ meglio, non hai la libertà né di praticare la tua fede, né di svolgere qualsiasi opera sociale. Qui è diverso. I libici sono persone che hanno una fede profonda, e quindi capiscono perché anche tu hai diritto a praticare la tua religione. Sono poi molto riconoscenti per il lavoro che facciamo senza guardare se uno è bianco o nero, musulmano o cristiano o ateo, se è ricco o povero. Tutti li seguiamo con la stessa passione e dedizione. Spesso mi dicono che sono una vera musulmana, che sono timorata di Dio. Spesso mi invitano nelle loro case, ai grandi momenti della loro vita, mi confidano i loro problemi e le loro gioie. Io, da parte mia, sono contenta se riesco a fare bene il mio lavoro, al di là delle parole che mi dicono e dei soldi che guadagno». Norma mi lascia, deve andare a tenere una classe di catechismo con bambini di tutti i colori: neri, gialli, bruni, bianchi.

chiesa-di-san-francesco-a-tripoli-foto-di-michele-zanzucchiLascio Norma e mi ritrovo con quattro africani giunti in Libia grazie a lunghe e pericolose traversate del deserto. Chris e Godwin vengono dalla Nigeria, Raymond dal Camerun e Joseph dal Ghana. Tutti e quattro sono amici del Movimento dei Focolari. Tutti e quattro vivono nella precarietà di impieghi saltuari e mal remunerati. Tutti e quattro hanno attraversato il deserto attraverso il Niger. Tutti e quattro considerano la Libia una tappa intermedia del loro viaggio. Tutti e quattro sorridono comunque.

Raymond lavorava alla Dal Monte, nelle piantagioni di banani. Poi un capo ha cercato di fargli il pizzo sul suo stipendio, e siccome non riusciva più a mantenere la famiglia se ne è andato, senza però trovare un nuovo lavoro. Ha così deciso di emigrare. Passando per la vicina Nigeria e per il Niger è giunto in Libia a bordo di un camion con 293 persone a bordo, stracolmo e ondeggiante nella sua andatura folle nel deserto. «Non pensavo di arrivare vivo, sia per gli incredibili scossoni, sia per la poca acqua e lo scarso cibo che avevamo, sia perché ad un certo punto una paratia del camion ha ceduto mentre correvamo a ottanta all’ora nel deserto, e una ventina di noi sono caduti rovinosamente al suolo. Uno è morto e l’abbiamo seppellito, gli altri sono stati curati nell’ambulatorio della città di Duruki, l’ultima città del Niger. Poi abbiamo passato la frontiera in modo irregolare, seguendo una pista nel deserto non tracciata sulle mappe, lontana dai posti di frontiera controllati da soldati libici. Erano i ribelli a guidarci, gente senza scrupoli che vuole molti soldi in cambio. In tutto la traversata mi è costata 100 dollari. Poi, arrivati a Tajarhi, ci hanno fatto scendere dal camion ed ognuno era libero di arrangiarsi come poteva».

Chris lavora come idraulico in una ditta libica. «Loro cercano sempre di convincermi a farmi musulmano, perché dicono che solo loro si salvano. Ma in fondo mi rispettano, e vedono che sono uomo di fede. Sul lavoro debbo dimostrare che sono cristiano coi fatti, amando tutti, anche coloro che mi trattano male. Ma ora le discussioni sono finite, perché il capo ha detto a tutti che sono come un bravissimo musulmano, un musulmano nello spirito e un ottimo cristiano. E io ho detto loro che Dio ama tutti, e che quindi ci ritroveremo tutti in Cielo se vivremo bene, col timor di Dio e l’amore per il prossimo. Hanno detto di essere d’accordo. La vita qui in Libia ha senso solo perché credo in Dio. Sono qui da sette anni, e spero di tornare nel mio Paese quanto prima».

Godwin ha incontrato i Focolari in Libia. Ha capito che doveva amare sempre e amare tutti, anche i nemici. «Un giorno avevo una persona che mi si era fatta nemica. Che fare? La mattina l’ho vista per strada. Ho cambiato lato, ma poi mi sono detto che dovevo amarlo. L’ho salutato, e gli ho chiesto se avevo fatto qualcosa contro di lui. Mi ha risposto di no, ci siamo chiesti scusa e siamo andati avanti insieme fino al lavoro». Raymond mi mostra una piccola spilla con un’effigie di Maria: «Quando i musulmani la vedono, mi chiedono cosa sia, se sia una santa cristiana. Quando dico loro di guardare con attenzione, e scoprono che è Maria Vergine, s’inchinano. Maria ci unisce».

 

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