La parola del perdono

Il papa ha celebrato la sua eucaristia a Lampedusa, davanti a quel mare Mediterraneo diventato un cimitero per oltre quindicimila immigrati. Una riflessione
Papa Francesco celebra l'eucaristia a Lampedusa.

Il papa è andato a Lampedusa a chiedere perdono con il vestito della penitenza, non solo con i paramenti liturgici di colore viola, ma con la sua vita, il suo cuore, il suo ministero, che, come Gesù, ha come primo mandato il Vangelo ai poveri. E qui i poveri hanno il nome delle vittime, una per una, quel nome che già oggi è scritto nel libro della vita che sta in cielo, ma che è costantemente dimenticato da una politica che uccide, partorita da un'Europa ripiegata su sé stessa, sulle sue paure e sui suoi fallimenti, e coltivata in Italia dalla spregiudicatezza di una cultura che ha trasformato fratelli immigrati in clandestini, in nemici, in criminali.

Un'operazione che ha prodotto rendite di posizione politica, ma ha sfigurato il cuore e l’anima del nostro Paese. Anche i cristiani sono stati deboli nel rigettare questa cultura in nome di convenienze politiche. L'omelia di papa Francesco è partita con due domande poste ambedue da Dio, una rivolta a Adamo e l'altra a Caino: «Adamo dove sei?»; «Caino, dove è tuo fratello?». Da una parte Dio chiede dove sia l’umanità, dove abiti, e dall’altra chiede a Caino la misura della fraternità, la chiede proprio a colui che ha ucciso Abele, sfigurando quella fraternità che era inscritta nel mistero dei figli di Adamo.

Queste due domande rinviano alla tragedia di un mare che è stato testimone di un guerra condotta nel nome e nella forza dell’egoismo e talora anche con la violenza delle armi, come la guerra di Libia testimonia. Ha detto papa Francesco: «Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio, anzi di essere Dio, porta a una catena di sbagli che è catena di morte, porta a versare il sangue del fratello. Questo impedisce a tutti e anche a noi di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quelle a cui abbiamo assistito».

Ma la domanda di Dio a Caino oggi è posta a noi con mitezza e parresia dal papa, venuto in questo luogo che è periferia del mondo non come dato geografico, ma come dato culturale, perché qui passano gli ultimi del mondo. E la voce di questi poveri che cercavano la vita e hanno trovato la morte sale a Dio e da Dio è ascoltata. Potremmo dire, parafrasando la lettera agli ebrei, che il loro sangue, come quello del Signore, è più eloquente di quello di Abele.

Il vescovo di Roma ha messo ciascuno di noi fronte alle proprie responsabilità, dalle quali ci sottraiamo. Ha sottolineato il papa: «Abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore all’altare: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino” e continuiamo per la nostra strada». Qui sono indicate due figure religiose. Non si parla di altri, ma di noi cristiani che non sappiamo riconoscere l’autorità dei sofferenti sulla nostra vita, quell’autorità che Gesù stesso accettava, come mostrano molti miracoli del Signore.

Ma Bergoglio è andato oltre, si è chiesto e ci ha chiesto: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questi?». Non è stata una caduta  sentimentalista, al contrario ha rinviato al mistero delle beatitudini e al pianto del Signore. Nelle Beatitudini si legge: «Beati coloro che piangono perché saranno consolati!». Solo una Chiesa del pianto e delle lacrime potrà essere una Chiesa povera e dei poveri, che condivide fino alle lacrime il dolore e il patire dei fratelli più piccoli, la loro sofferenza e la loro morte.

E ha dichiarato il papa, senza escludere la responsabilità di alcuno: «Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche, che aprono la strada a drammi come questi. Chi ha pianto oggi nel mondo?». Dunque tutti sono coinvolti, i potenti della terra, ma anche le persone religiose, che guardano distrattamente ai patiboli della storia.

Da dove ripartire? Ed ecco il grande grido del perdono, un grido che si fa preghiera, un grido che riguarda tutti, credenti e non credenti, carnefici anonimi e vittime innocenti, cristiani opportunisti, dal linguaggio levigato, troppo distratti dagli equilibri ecclesiastici, e persone della politica, che usano i poveri per le loro carriere anguste e per le loro piccole ambizioni. Ha detto il papa: «Chiediamo perdono per l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle». È la Chiesa dell’indifferenza verso il dolore dei più piccoli e feriti.

Poi la preghiera di perdono del papa si è fatta intercessione «per chi si è accomodato, si è chiuso nel proprio benessere, che porta all’anestesia del cuore». Sono i ricchi della storia. E infine ha domandato perdono per i potenti, «per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi».

Dunque il papa ha chiesto perdono per i cristiani, per i ricchi e per i potenti, per coloro che portano la responsabilità di una politica che uccide e ha concluso con una invocazione assoluta: «Signore, perdono». Tutto si può riedificare a partire dalla parola del perdono, che Gesù dice da un patibolo e qui è detta a Lampedusa, in un crocevia di culture e di storie, di dolore e di speranze, di tragedie e di incontri.

Il papa a Lampedusa ha consegnato la parola del perdono per abbattere muri e innalzare ponti, per disarmare i cuori violati dall’egoismo e dall’interesse, per ricostituire la casa della fraternità. Ecco la piccola chiesa di Lampedusa divenuta la Chiesa povera e per i poveri, che papa Francesco sogna, che prega incessantemente il perdono per tutti, che è penitente di fronte al dolore dei fratelli, che sa ristorarsi con gli affaticati e gli oppressi alla fontana zampillante del perdono.

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