La Palma d’oro a “La vita di Adèle”
Iniziata tra sfarzo e sfilate di celebrità che non avrebbero trovato immagine speculare più appropriata se non nel Grande Gatsby, ispirato all'omonimo romanzo di Francis Scott Fitzgerald, diretto da Buzz Lurhmann e interpretato da Leonardo Di Caprio, scelto per la serata inaugurale, la 66esima edizione del Festival di Cannes ha raccolto applausi e consensi per la qualità dei prodotti messi in mostra. Capacità dei selezionatori di scegliere il fior da fiore della cinematografia mondiale o anno di grazia? Lo diranno gli altri festival del 2013.
Pronostici rispettati e facilmente prevedibili nell'assegnazione dei palmarès, con i premi principali spartiti tra Francia e Usa (Palma d'oro, Gran premio della giuria, Premio della giuria, migliori attori, regia, sceneggiatura) e un occhio ai mercati asiatici, che in tempi di crisi sono quelli che meglio di tutti stanno rispondendo a tentativi di ripresa. D'altra parte con una giuria composta esclusivamente da francesi e americani, presidente Steven Spielberg, con l'aggiunta di membri ormai saldamente incardinati nel sistema hollywoodiano, i giochi erano facilmente prevedibili. Senza togliere niente a nessuno e senza recriminare per il cinema italiano rimasto a bocca asciutta (con La grande bellezza Paolo Sorrentino si è rinchuso nello spazio angusto di un affresco così circoscritto – la Roma notturna e la sua fauna festaiola – da poter essere apprezzato soltanto da chi la pratica e la frequenta. E non si prenda a paragone La dolce vita di Fellini).
Dunque, Palma d'oro a La vita di Adèle del franco-tunisino Abdelatif Kechicne, comprensiva delle due protagoniste, ed escamotage per una più larga disponibilità di allori per la categoria. Riconoscimenti per gli attori che sono andati all'americano Bruce Dern (quasi un premio alla carriera), protagonista di Nebraska diretto da Alexander Payne e a Berenjce Bejo, interprete di Il passato dell'iraniano Asghar Farhadi (ma il film batte bandiera francese).
Il Gran Premio della Giuria è toccato a Inside Llewyn Davis di Ethan e Joel Coen, forse il più bel film visto in questa tornata per il suo mix di ironia, poesia, visione profetica della vita e senso biblico che caratterizza il cinema dei due fratelli.
Il messicano Amat Escalante ha vinto il Premio della regia con Heli, realistico ritratto del malessere e del degrado del sottosviluppo (droga, prostituzione, violenza) che sconvolgono la vita di tanti giovani derubandoli dell'innocenza, mentre il Premio della giuria è stato assegnato al giapponese Tale padre tale figlio di Kore-eda Hirokazu e quello per la miglior sceneggiatura al cinese Un cenno di peccato di Jia Zhangke. Due storie di denuncia: l'una sulle tradizioni di classe che finiscono per condizionare l'indivuduo e l'altra sulla disordinata crescita industriale che, in nome del profitto, in Cina ha travolto ogni residuo di umanità.
Nel complesso un cinema specchio della contemporaneità – se si volesse cercare un comune denominatore – e della delicata fase di passaggio attraversata da un'epoca zeppa di contraddizioni e anomalie, dove il persistente contrasto fra individuo e comunità sembra aver accresciuto una diffusa banalità del male nel vivere sociale. Uno stato di incertezza, di ansia e di tormento al quale il cinema italiano è momentaneamente estraneo, incapace di fornire risposte. Non necessariamente rassicuranti. Tanto è vero che, quando raramente lo fa, ne raccoglie i frutti. Come hanno dimostrato Miele di Valeria Golino (Menzione speciale della Giuria Ecumenica) e Salvo di Piazza e Grassadonia (Primo premio alla Settimana della critica).