La Palestina a Castrolibero

Il nucleo storico del borgo calabro nei pressi di Cosenza ospita un suggestivo presepe vivente accompagnato dalla rievocazione di antichi mestieri
Presepe vivente di Castrolibero

Per tre volte, il 27 dicembre 2015 e il 3 e 6 gennaio 2016, lo spopolato centro storico di Castrolibero, cittadina a 560 metri di altitudine poco sopra Cosenza, sulla riva sinistra del fiume Crati, assume un altro aspetto. Castroliberesi rientrati per le feste o provenienti dalle vicine contrade, da Cosenza e da Rende, ma anche cittadini di altri paesi della Calabria tornano a percorrere le sue stradine e piazzette trasformate in occasione del presepe vivente, la novità di questi ultimi anni.

 

Allestiti nei luoghi più significativi della Castelfranco anteriore all’unità d’Italia, gli episodi evangelici si alternano alle rievocazioni di antichi mestieri e a scene di vita quotidiana, com’è tradizione in ogni presepe dove Gesù – il Dio fattosi vicino, l’Emanuele – nasce in un umile contesto urbano. Costumi e ricostruzioni di ambienti con gli arredi, gli strumenti del lavoro e della vita di ogni giorno sono stati realizzati da un gruppo di appassionati castroliberesi, tra i quali figurano anche i personaggi destinati ad animare questa rappresentazione.

 

Sono le 17 serali del 27 dicembre, e di questa stagione vien presto buio. Tutto o quasi è ormai pronto. E già i primi visitatori iniziano a percorrere la via principale ricoperta da uno strato di paglia, passando sotto due archi costruiti per l’evento, un rinvio all’epoca di Erode. Sul parcheggio sotto il quale è la nuova sala consiliare vigilano, accanto alle loro tende, alcuni soldati romani: fortuito o voluto l’accostamento tra quella che era l’autorità di allora e i rappresentanti dell’attuale?

 

Passiamo accanto all’officina del fabbro in piena attività; più avanti, in un recinto, due puledri (oltre ai figuranti umani non mancano quelli animali), rispondono docili alle carezze dei visitatori. Rustici ambienti rivelano, ai desiderosi di degustazioni, meraviglie di caciotte e altri formaggi, salami e soppressate, olive diversamente trattate, pani casarecci, frutta e conserve d’ogni tipo.

 

Sbirciamo dentro la prima delle casette costruite da un comitato napoletano per i terremotati del 1905: alcune donne in costume attorno ad un braciere cuciono e chiacchierano. Me le immagino in abiti d’oggi, casalinghe affaccendate con un occhio ai fornelli e uno all’ultimo programma culinario tv. Qui invece ritrovano il piacere della conversazione e forse anche quello di dedicarsi ad un’occupazione ormai trascurata nel nostro tempo del tutto pronto e subito. Già dai baracchini delle grigliate di carne e delle ciambelle (i tradizionali cuddrurieddri) si diffondono appetitosi profumi.

 

Un altro sguardo attraverso la finestra al pianterreno di una modesta abitazione scopre quella che sembra una famiglia patriarcale riunita: nessuno dei membri è in costume, tutti si espongono nella loro quotidianità. Questo tocco casalingo e non costruito accresce la suggestione del momento.

 

È un po’ Palestina, un po’ Castrolibero dei tempi andati. Se i costumi rimandano alla prima, in fondo le attività qui rievocate fanno parte di una cultura contadina comune ad entrambe. Diversità di emozioni. Se i giovani guardano incuriositi scene di vita che forse hanno sentito raccontare dai nonni, gli anziani riconoscono con sentimento nostalgico tradizioni ancora in uso all’epoca della loro giovinezza.

 

Centro della rappresentazione è la piazzetta della torre dell’orologio, dove due riflettori con raggi laser disegnano nel cielo ormai buio la stella cometa, visibile da tutta la vallata. Sotto una capanna ci attendono Maria, Giuseppe e il Bambino nella culla. Per la verità il Bambino è un po’ cresciuto, essendo lo stesso del presepe vivente dell’anno scorso, che lo ha visto neonato. Ma cosa importa? Non s’è trovato altro bambino e di conseguenza altra madre. La sua, per farlo star quieto fino a quest’ora tarda (infatti dorme pacifico) ha dovuto mantenerlo sveglio tutto il giorno. Quanto allo sposo di Maria, ha assolutamente le phsyque du rôle. Maestoso con chioma e barba grigie, sarebbe un perfetto san Giuseppe anche senza il manto e in abiti moderni. Quando qualcuno glielo fa notare, ride compiaciuto.

 

In fondo alla capanna, dove brucia un vero fuoco nel focolare, c’è un asinello. E il bue? Dov’è il bue? Strana questa assenza, dopotutto le campagne qui attorno sono disseminate di fattorie dove non dovrebbero mancare animali da allevamento. Ma ecco, i vigili chiedono alla folla di far largo nello spiazzo. Sta arrivando un furgone chiuso. «Le pecorelle, le pecorelle!» si sente dire da qualcuno. Un sonoro muggito proveniente dal furgone smentisce queste voci, annunciando l’arrivo (in ritardo) di un non secondario personaggio. Prima però che il bue venga fatto scendere per prendere posto accanto al suo compagno a quattro zampe, escono dal veicolo due vivaci caprette da destinare ad altro luogo.

 

Il percorso storico ci porta ora davanti alla diruta chiesa di Santa Maria della Stella, scenario ideale per la presentazione al tempio di Gesù. Sulla gradinata antistante la facciata medievale Giuseppe e Maria col Bambino (stavolta però si tratta di un bambolotto) vengono accolti attorno ad un alto braciere dal vecchio Simeone e dalla profetessa Anna. Ogni “quadro” è accompagnato da un sottofondo musicale e dalla recita del brano relativo del Vangelo.

 

Ci spostiamo nel vicino Palazzotto, un piccolo parco sorto sul luogo dove l’esercito franco si accampò per difendere la cittadina dai saraceni sbarcati ad Amantea. Da qui splendida visuale sulla sottostante vallata punteggiata di luci, quasi stelle imprigionate tra i tronchi e le chiome degli ulivi. Qui si svolgono le sequenze più drammatiche: la fuga in Egitto e la strage degli innocenti. In un crescendo di musiche conturbanti e cupe, due sgherri di Erode, che dal trucco fanno venire in mente certi terroristi d’oggi, inseguono alcune donne disperate fino a trafiggere i loro bambini (dei comuni pupazzi). «Venite via!», esorta i figlioletti una mamma preoccupata. Niente da fare: forse perché abituati a ben altri orrori tv, quelli rimangono incollati davanti alla scena efferata. Recita il Vangelo di Matteo: «Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande; Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più». Particolare non descritto dall’evangelista: compiuta la strage, gli assassini, si accasciano come sopraffatti loro stessi dell’enormità del loro peccato.

 

A questa realistica rappresentazione, procedendo oltre, segue un “quadro” più gentile: attorno a un lavatoio alcune giovanissime lavandaie sono intente a lavare i loro panni (a secco, s’intende, per non prendersi un malanno con quest’aria frizzante!), mentre in un pentolone bolle l’acqua per la lisciva di lontana memoria. Accanto, altro posto di ristoro dove si producono cuddrurieddri in versione dolce e salata.

 

Ma già ci avviamo verso l’ultima scena: la novità di quest’anno. Davanti ad un vecchio frantoio, ora trasformato in garage, si va recitando su un canovaccio nuovo la celebre parabola del figlio prodigo. Messaggio di questo presepe vivente giubilare vuol essere infatti  la misericordia. Con l’invito a perdonare e non solo a «non fare il male», ma «ad operare il bene».

Prima di lasciare la Castrolibero storica, che ne direste di una visita nella chiesa parrocchiale? È aperta. E poi qui è Gesù vivo in persona nell’Eucaristia. Certo, senza fiato di bue ed asinello, al posto dei quali l’impianto calorifero rende confortevole sostare per una breve preghiera.

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