La pagliuzza e l’elefante
Neanche a Mosca si vedono in giro tanti souvenir con l’immagine di Anton Pavlovič Čechov quanti invece se ne incontrano a Južno-Sachalinsk, il principale centro di Sachalin, l’isola dell’estremo oriente russo a nord del Giappone, grande tre volte la Sicilia. In questa città che ha origine nel villaggio di Vladimirovka, fondato nel 1882 da esuli russi, e la cui architettura di eredità sovietica s’intreccia ad elementi orientali risalenti al quarantennio di dominazione giapponese (1905-1945), il grande scrittore e drammaturgo è celebrato anche con un teatro, un monumento e un museo a lui intitolati.
Čechov è diventato in effetti un simbolo locale di quest’isola ricca di petrolio, gas naturale, carbone, foreste e pesce (è rinomata per il caviale), grazie alla sua visita fatta nel 1890 per accertare le condizioni igienico-sanitarie delle migliaia di detenuti ivi relegati dal regime zarista, allo scopo di ricavarne una sorta di reportage. Apparsa prima a puntate sotto forma di articoli, pubblicata nella sua versione definitiva nel 1895 col titolo L’isola di Sachalin, l’opera è ora riproposta integralmente dalle edizioni Adelphi a cura di Valentina Parisi.
Non sono chiari i motivi che convinsero Čechov ad affrontare il faticosissimo viaggio di 11 mila chilometri attraverso la Siberia, anche se lui stesso li accennò in una lettera all’editore e amico Aleksej Suvorin: «Io sono profondamente convinto che tra cinquanta o cento anni si guarderà alla pena dell’ergastolo con la stessa perplessità e imbarazzo con cui oggi guardiamo all’applicazione della tortura. Per cambiare questa eterna prigionia con qualcosa di più razionale e rispondente alla giustizia, ci mancano ancora le conoscenze, l’esperienza, il coraggio. […] Sachalin è un luogo di intollerabili sofferenze per ciascun uomo, sia esso recluso o custode. Io oggi m’imbarco per l’isola siberiana con la convinzione che il mio viaggio forse non darà un pregevole contributo né alla letteratura né alla scienza, ma sono sicuro che in tutti questi mesi avrò l’occasione di vivere momenti di gioia, o di amarezza, che ricorderò fino alla fine dei miei giorni […] e l’unica cosa […] di cui rammaricarsi è che ci vada io, e non un altro, più competente e più capace di destare l’interesse della società».
A spingerlo, probabilmente, furono anche la noia di una vita borghese a Mosca e il desiderio di compensare con un lavoro “scientifico”, lui che di professione era medico, il tempo sottratto alla medicina per dedicarlo alla letteratura. Inoltre era sempre a corto di soldi e avrebbe ricavato un compenso dalle sue impressioni di viaggio, una volta pubblicate.
Dopo essersi meticolosamente documentato e munito delle preventive autorizzazioni, con l’unico divieto di avvicinare i prigionieri politici, Čechov partì il 21 aprile 1890 in treno da Mosca per Jaroslav’, da dove raggiunse Perm’ in battello; preso il treno per Tjumen’, viaggiò in carrozza fino al lago Bajkal, che attraversò in battello. Da Sretensk l’11 luglio toccò finalmente Aleksandrovsk, l’allora capoluogo di Sachalin sulla costa dello Stretto dei Tartari. Rimase in quest’isola dai lunghi e rigidi inverni fino al 13 ottobre. Dopo di che ripartì per nave, sbarcando il 1° dicembre a Odessa. Quello stesso giorno scrisse: «Prima del viaggio la Sonata a Kreutzer [romanzo di Tolstoj che aveva destato scalpore per l’argomento inusitato, scottante e persino scabroso, n.d.r. ] mi sembrava un avvenimento, oggi mi appare assurda e ridicola. O il viaggio mi ha maturato o io sono impazzito».
Cosa vide Čechov nell’isola dei forzati? Uomini che, incatenati ai carrelli, penavano nelle miniere di carbone, carcerieri corrotti, punizioni giornaliere di novanta frustate, donne che si prostituivano con i carcerieri e i deportati, sia quelle libere che avevano raggiunto i mariti condannati, sia le stesse forzate, e figli nati da chissà quale padre. Una mostruosa macchina organizzativa per gestire e rendere efficiente l’esistenza di migliaia di individui: non solo i condannati per delitti comuni o ragioni politiche, ma anche i militari, i civili, gli isolani, tutta l’umanità che ruota attorno ad una colonia penale, con le sue solitudini, angosce, nostalgie. Ma anche visioni di bellezza, come appare da certi squarci descrittivi sulla natura selvaggia o i primitivi indigeni ainu.
Il frutto di questo soggiorno si fece attendere a lungo, perché lo scrittore vi lavorò saltuariamente e di malavoglia. E una volta pubblicato, risultò troppo poco scientifico per i docenti dell’Università di Mosca, e poco letterario per chi si aspettava qualcosa come le dostoevskiane Memorie di una casa dei morti. Lo stesso Čechov non vi attribuì importanza: «Ho pagato il mio tributo all’erudizione e sono lieto che la ruvida veste da forzato sia appesa nel mio guardaroba letterario. Che vi rimanga!».
Malgrado il riserbo dell’autore, questo testo atipico, che s’interrompe senza conclusione, come del resto molti racconti cechoviani, dice qualcosa, anzi molto sull’impotenza dell’animo umano, annichilito dalla visione di certi orrori, a darsi un motivo, una spiegazione, a dire una parola risolutiva. Quasi costatazione malinconica di chi ha visto tanto, forse troppo, ma ha mancato l’essenziale. Come del resto lo stesso Čechov confessò a Suvorin in una lettera dell’11 settembre 1890: «Adesso che ho detto addio alla katorga [la galera], mi sembra di aver visto tutto, ogni singola pagliuzza. E se mi fosse sfuggito l’elefante?».