La pace negli occhi
Un giovane palestinese è salito in un autobus che andava da Tel Aviv a Nazareth, in Galilea. Masticava la gomma, ha riferito un testimone. Ha pagato regolarmente il biglietto, ha sorriso, si è seduto vicino a un soldato, e poi è esploso. La giornalisa israeliana Manuela Dviri racconta questo episodio in una drammatica corrispondenza da Tel Aviv per il Corriere della Sera. La notizia è del 20 marzo 2002, ma potrebbe essere di ieri, e non cambierebbe nulla nei fatti e nel dramma. Arrendersi allo sconforto? Anestetizzare la coscienza o, peggio, erigere un muro per nascondere alla vista una realtà senza speranza? Gennaro Fatigati non riesce a pensarla così. Studia medicina alla Seconda Università di Napoli (Sun), ed è presidente del comitato per le attività autogestite degli studenti. Con Diana Pezza Borrelli, presidente dell’Amicizia ebraico-cristiana di Napoli, una vita di impegno per il dialogo, pensano di offrire a giovani universitari italiani, israeliani e palestinesi la possibilità di conoscersi, progettare e lavorare insieme per la pace. Con il loro entusiasmo riescono a coinvolgere università, Regione Campania, associazioni e singoli cittadini. Parte così la prima fase del Progetto dialogo Israele-Palestina. Nel giugno 2002 si svolge un primo convegno a Caserta, con la partecipazione di Matan, studente israeliano, e di Raja Zaatry, palestinese; ci sono anche Manuela Dviri e la docente palestinese Mary Bittàr. Intervengono il rettore della Sun Antonio Grella, il presidente della Regione Campania Antonio Bassolino, e altre personalità. Presenti anche alcuni Giovani per un mondo unito della Campania, Assopace, membri della comunità ebraica e della comunità palestinese di Napoli. L’incontro riesce. Non solo, è denso di promesse: rafforza il desiderio di poter offrire a giovani di Israele e Palestina l’opportunità di incontrarsi più a lungo di quanto consenta un convegno; per dialogare, scoprire il volto, le paure, i sogni dell’altro. Gennaro si reca più volte in Israele e Palestina, per consegnare medicinali di urgente necessità e per contattare studenti di varie università, giovani disposti a partecipare alla seconda fase del progetto. A Gerusalemme, conosce Asher Salah, israeliano, docente all’università di Gerusalemme, di madre italiana, fidanzato con Ori Goldstein. E a Ramallah fa amicizia con Anwar Abu Hashish, palestinese, laurea in architettura a Venezia, sposato con due figlie. I due non si conoscevano fra loro, Gennaro fa da tramite. E sono sere e notti trascorse a discutere, parlare, scoprirsi e stimarsi. Un primo frutto di questa conoscenza reciproca è la traduzione, firmata proprio da Asher e Anwar, di un interessantissimo libro pubblicato in Italia da Una Città nell’ottobre 2003: La storia dell’altro, un manuale delle due storie di una sola terra, quella israeliana e quella palestinese, dalla dichiarazione Balfour del 1917 alla seconda Intifada, scritto da una dozzina di insegnanti israeliani e palestinesi del Peace Research Institute in the Middle East (Prime), e adottato in alcuni licei al di qua e al di là dei check point. Finalmente, dopo montagne di scartoffie, promesse e permessi, progetti e contatti, collaborazioni e rinvii, nasce l’incontro del febbraio 2004: una settimana a Napoli di due delegazioni di giovani, israeliani e palestinesi. Al piccolo gruppo iniziale dei promotori italiani si uniscono, per dar vita all’incontro patrocinato da Regione Campania e Sun, anche alcuni Giovani per un mondo unito. La delegazione israeliana giunge lunedì 2 febbraio a Benevento presso il Centro La Pace, sede dell’incontro. Quasi a dimostrazione della complessità del paese stesso, la delegazione, composta dai due tutor Ori Goldstein e Asher Salah, e da sei giovani (quattro donne e due uomini), ha diversa provenienza (Gerusalemme, Tel Aviv, Nazareth), diverse tradizioni (sefardita e askenazita) e diverse origini culturali (un arabo israeliano, una ebrea di origine indiana, altri di origine yemenita, polacca, statunitense e marocchina). Quella palestinese, con Anwuar Abu Hashish come tutor, arriva dopo non poche difficoltà nell’attraversamento della frontiera giordana, superate grazie all’intervento della Farnesina, del Centro Peres per la Pace e di Manuela Dviri. Anche questa delegazione dimostra la complessità della società palestinese: vi sono cinque giovani (quattro donne e un uomo), laici, musulmani e cristiani, di diversa provenienza. Una varietà quindi già all’interno di ciascuna delegazione; ma in tutti il desiderio di dialogo sincero, di crescita comune, di confronto autentico. A causa del ritardo nell’arrivo della delegazione palestinese, il programma subisce variazioni quasi quotidiane, ma è costante l’attenzione a privilegiare i momenti di incontro vero, come li ha definiti l’assessore regionale Adriana Buffardi, che con il rettore della Sun, l’assessore Nicolais e altri esponenti politici, incontra i giovani a San Leucio, per un confronto arricchito dagli interventi di sindaci e amministratori delle Città di pace della Campania. Scaturisce, da questo confronto, la proposta di far nascere una associazione di studenti italiani, israeliani e palestinesi per continuare questo dialogo tra i giovani. Viene lanciato, inoltre, il progetto, rivolto alle città, di fare gemellaggi a tre: non solo una città italiana gemellata con una israeliana o palestinese, ma una città italiana gemellata con una palestinese ed una israeliana, per favorire e accrescere il dialogo tra persone, oltre che tra istituzioni. Ori e Anwar esprimono con parole intense la comune volontà delle due delegazioni di lavorare insieme avendo come obiettivo di creare occasioni di dialogo che sblocchino dal basso il processo di pace, scalzando il muro del pregiudizio. Già, due delegazioni, per lo meno fino a metà della settimana. Perché in realtà, col procedere dell’esperienza, i rispettivi membri avvertono sempre di più, non senza problemi e tensioni anche con gli italiani, di essere una sola delegazione. Una delegazione mista, ma una, affermano al termine della tavola rotonda sul valore civile del dialogo interreligioso, tenutasi al Centro la pace di Benevento con gli interventi di Piero Coda, presidente dei teologi cattolici italiani, di Mostafa El Ayoubi della redazione di Confronti e di Marco Maestro, ebreo italiano, per anni animatore nel Cirp (Centro interdipartimentale di ricerche sulla pace dell’Università di Bari) e docente presso l’Università Al Quds di Gerusalemme. Ciò che più colpisce, in queste giovani mediorientali, è il bisogno di gesti e di affetto, tangibili, da parte del nemico: una carezza, un bacio, un abbraccio, un aiuto delicato per intrecciare i lunghi capelli. Da questi gesti nascono colloqui intensi, ore e ore a raccontare del proprio mondo e ad ascoltare quello dell’altro, fino a sentirsi e riscoprirsi – come diversi di loro hanno detto – realmente fratelli e sorelle. Dietro espressioni come Al Fatah o esercito ora non si nasconde più l’ombra scura della paura di morire, ma ci sono visi e persone conosciute, vite che non vogliono avere niente a che fare con la violenza, ma che spesso sono semplicemente costrette, da poteri più grandi, ad essere suoi strumenti. La sfida che ci sta dinnanzi – scriverà alla fine Maestro – è far avanzare un processo di conoscenza, confronto e se si vuole contaminazione tra culture diverse, che però non passi, come è sempre avvenuto in passato, dalla fase dell’oppressione e del dominio violento. Fasi che implicano sempre un processo di omologazione forzata. Come si inserisce l’incontro di Benevento in questo discorso? In senso lato, esso può essere portato come un modesto, ma significativo esempio di un’azione che vuole avvicinare due culture, due identità vicine, compresenti nello stesso territorio ma per lunghi anni nemiche, come ebrei e palestinesi, e vuole conseguire questo fine trasportando un gruppo simbolicamente rappresentativo di giovani per farli convivere per un certo tempo (un tempo come sospeso) in una terra che è straniera per ambedue, ma dove saranno accolti fraternamente. E ciò affinché, possibilmente, siano spinti, quando torneranno alle loro case, ad accogliersi l’un l’altro. Il resto della settimana è una festa: la serata di musiche napoletane, la cena offerta dalla Provincia di Benevento, le visite guidate, le nottate a giocare, lo shopping a Napoli senza l’ansia della bomba, del coprifuoco volontario (israeliani) o obbligatorio (palestinesi) che ti condiziona la vita. Tra i momenti più belli, quelli in cui una coppia formata da una palestinese e un israeliano si è esibita in passi di danza di tale armonia e sintonia da sembrare che fosse il frutto di lunghi anni di esercizio insieme, mentre si conoscevano solo da due giorni. Al termine, i giovani scrivono al presidente Bassolino un messaggio in arabo, ebraico e italiano: Grazie al determinante contributo della Regione Campania e della vostra complicità nel progetto, abbiamo potuto, noi giovani israeliani e palestinesi, provare il sapore della riconciliazione e della fratellanza. Nella speranza di un futuro migliore, questa esperienza rimarrà impressa nei nostri cuori. La partenza dall’aeroporto di Napoli dell’unica delegazione conferma il titolo da cui eravamo partiti: La pace negli occhi, un evidente riferimento al libro di Manuela Dviri La guerra negli occhi, recentemente pubblicato da Avagliano. Un riferimento di ringraziamento all’autrice e un’indicazione e augurio per il titolo di un prossimo libro, scritto da lei, ma anche dagli italiani, spesso disinformati e un po’ troppo italocentrici. Purtroppo non apparirà in libreria in tempi brevi, ma arriverà. Dopo tutto viviamo nella stessa terra, beviamo la medesima acqua, godiamo dello stesso clima e per tante cose ci assomigliamo nel destino.