La pace è utopia al tempo di AI?

Mai come di questi tempi si ha l’impressione collettiva che la convivenza senza guerra e violenza sia una prospettiva irrealistica. Torniamo su quest’argomento centrale nell’attuale contingenza
ph Freepik

La pace in alcuni posti del pianeta Terra c’è e c’è stata, anche se sembriamo dimenticarlo. Essa non è la produzione mentale di un’entità umana malvagia, come quella di Caino, che proprio per combattere la sua natura “cattiva” cercherebbe di inventarsi un lato pacifico del proprio carattere. Per 70 anni in Europa abbiamo cercato di mantenerci nella pace e ci siamo grosso modo riusciti, se facciamo astrazione dalla crisi, negli anni ’60 e ’70, dell’Irlanda del nord, e la guerra balcanica degli anni Duemila. Il trauma della Seconda guerra mondiale ha segnato profondamente l’Europa, la Shoah in particolare, e per questo abbiamo cercato di non ricadere nel tranello della guerra.

Ma ora siamo di fronte a una doppia crisi vicina, quella del Donbass e quella di Gaza, per non parlare delle crisi più lontane, quella dei Grandi Laghi, del Myanmar, delle Coree e di Taiwan. La pace sembra tornata a essere un’utopia irraggiungibile e irrealistica. I media non ne parlano quasi più, strillano solo le armi. Ma nello stesso tempo cresce nel nostro mondo una sensibilità globale per questioni che hanno a che fare con la pace, come la sensibilità ecologica, o per il disarmo, per la solidarietà e i diritti, in una fase in cui la lobby più potente al mondo è però quella delle armi.

Ma il segno, la sensibilità, la realtà più importante di questi tempi è la rivoluzione digitale, che poco alla volta è entrata nella nostra vita, a cominciare dalle nostre tasche in cui conserviamo dei potentissimi strumenti che possono essere fattori di guerra o di pace, dipende. Il cellulare è uno strumento dalle possibilità incalcolabili. Da qualche anno, poi, non si fa che parlare di intelligenza artificiale, a proposito e a sproposito, un percorso iniziato negli anni ’50, ma che si è sviluppato soprattutto come un orizzonte tecnico da raggiungere, con una certa atrofia dell’orizzonte di pensiero. Uso “orizzonte”, e non un termine più materiale e presente, perché l’AI ha ancora a lungo da pensare sé stessa e al contesto nel quale agisce. Serve filosofia del digitale, teologia del digitale, etica del digitale.

L’AI è oltretutto tra gli attori principali delle attuali guerre, lo vediamo soprattutto nei conflitti ucraino e israelo-palestinese. Pensiamo agli “sciami di droni” che sono totalmente autonomi, gestiti dall’AI. Agisce, inoltre, nell’incrementare l’efficacia dei sistemi tradizionali di armamenti offensivi, che provocano morti e distruzioni materiali nel campo avverso. Ma c’è anche l’immateriale cyberwar, che ha conseguenze realissime, che opera soprattutto nel campo comunicativo e in quelli di intelligence. Ormai è impensabile una guerra che non sia digitale e con l’uso dell’AI.

Nello stesso tempo, l’AI sta incrementando e sostenendo gli sforzi per la pace. Pensiamo al sostegno alla società civile che essa porta avanti, se non altro con algoritmi e comunicazione. L’AI, inoltre, sostiene gli sforzi di razionalizzazione delle burocrazie pubbliche. E come dimenticare la geolocalizzazione che rimpicciolisce il mondo? E la gestione dei flussi migratori? E la liberazione per gli umani di tanta “risorsa tempo”?

Ma la pace dobbiamo continuare a pensarla noi umani. Servono meccanismi di pace, di dialogo, di ascolto, di lavoro comune che solo noi possiamo attuare. Pensiamo ai rapporti tra fedeli di religioni diverse, rapporti che possono evitare immensi danni per una concezione ideologica della religione. L’AI può aiutare in tutto ciò, ma non può sostituire gli umani nel trovare vie di pace inedite. L’AI può aiutare a leggere la complessità e a governarla, ma non a trovare il pensiero atto a orientare il mondo futuro verso la pace. L’AI può altresì aiutare gli umani a mettere assieme le loro intelligenze per lavorare assieme alla pace, può fornire strumenti ma non dare soluzioni universali. La sapienza non è artificiale.

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