La nuova “generazione Covid” dei medici

Neolaureati e specializzandi hanno raggiunto medici con anni di esperienza nei reparti Covid, trovandosi per la prima volta a contatto con la sofferenza e la morte dei pazienti. Un aiuto reciproco in corsia.

Sei giovani medici, seduti in cerchio, raccontano e si raccontano. C’è condivisione e ascolto profondo, reciproco.  È la “generazione nuova” di questo incredibile anno e mezzo di Covid. Neo-laureati o al primo anno di specializzazione: sono fra quelli che hanno accolto con slancio generoso la sfida di mettersi in gioco da subito, in nome di un giuramento appena pronunciato, ma mai così vero come questa volta.

Dai libri passare direttamente alle ambulanze, ai Pronto Soccorso travolti dalla pandemia, alle Terapie intensive e ai reparti Covid. Qualcuno lo ha vissuto persino in Continenti diversi: il racconto del “viaggio” che ha portato dall’Argentina, al Brasile, all’Italia è lo specchio del “dolore del mondo” che non potremo mai comprendere fino in fondo se non attraverso lo sguardo di chi l’ha vissuto.  Ora che sembra essere il tempo di una tregua, è essenziale il bisogno di condividere e rielaborare.

Le frasi si rincorrono e si completano, armoniosamente. Ognuno ha il tempo e lo “spazio interiore” per fermare i pensieri e le immagini che tutti abbiamo ancora ben presenti negli occhi e nel cuore. «Per la prima volta la responsabilità delle scelte, delle firme su un foglio di terapia».

I colleghi di studio che ti chiedono: «ma davvero muoiono?” (quella morte che nei testi e nei programmi di formazione universitaria sembra non esistere). E quindi anche la solitudine: «Con chi potremo condividere i pensieri che tengono svegli di notte?».

L’impatto con una realtà nuova per tutti, affrontata con le paure dell’inesperienza (ma chi aveva esperienza?) e con la forza dell’età e della “vocazione” autentica. «Le telefonate con i parenti, da fare a tutti e tutti i giorni, senza poter scegliere; le risposte che non ci sono». Lo sguardo del paziente che ti fissa negli occhi e ti chiede: «rischio di morire, dottoressa?».

E così ti trovi ad attingere innanzitutto alle risorse che hai dentro. Quanto sono preziose nella formazione di un medico le esperienze relazionali, di impegno, di volontariato, di amicizia che a volte sembrano togliere tempo allo studio universitario.

Comunicare le «cattive notizie al telefono». Tutto è «strano e inaspettato»: appena laureati, trovarsi «subito a tu per tu con una malattia che uccide».

Dalla paura clinica («sarò in grado di prescrivere le terapie giuste, di identificare la diagnosi corretta?»), al vero “difficile” del nostro lavoro: «la crescita nella comunicazione, cercando di affinare giorno per giorno che cosa direche cosa non dire… con che voce… con quale solennità». Siamo di fronte a un uomo che muore e lo dobbiamo comunicare ai suoi affetti più cari, attraverso una telefonata, cercando di capire il limite fra “troppo” e “troppo poco” (ma raramente è troppo nella comunicazione autentica, quello che si impara può essere la gestione dei tempi conservando un alto contenuto di empatia.

La morte per Covid: «In un attimo, il paziente con cui avevo parlato dieci minuti prima, è peggiorato… e in un attimo è morto. E in quel momento ero lì, io, da sola… Quanto ci hanno aiutato gli infermieri!».

«L’emozione forte nel momento del decesso, così unico e sacro… con la necessità e la libertà di poter anche piangere». La scoperta che si può anche piangere, senza diminuire la professionalità.

La percezione che in quelle telefonate così difficili quello che rimaneva come unico autentico supporto era poter trasmettere che «tutto il possibile era stato fatto» e che fino all’ultimo il loro caro era stata seguita da persone che «gli avevano voluto bene».

 I profondi rapporti di gratitudine, affetto, “familiarità” in quelle telefonate con chi era fino a pochi giorni prima uno sconosciuto.

Le rabbie da “gestire”, non difendendosi e attaccando, ma rispondendo a tutte le domande prendendole sul serio, dimostrando attenzione, professionalità, competenza. E ricostruendo l’unicità della persona che stavamo curando (spesso fino alla fine) attraverso le storie personali di vita che i familiari sentivano il bisogno di raccontare.

Le scelte difficili: passare alle cure palliative? Iniziare una sedazione? Come? Con quali farmaci e a che dosi? Chi sono io per decidere? La scoperta che è impossibile farlo da soli, l’importanza del supporto, che non è mai mancato, da parte dei colleghi più anziani: supporto “clinico ed emotivo” al tempo stesso. La condivisione con gli infermieri in turno con te.

Ma in tutto questo, soprattutto, resta il “dono” che questa squadra di giovani colleghi sono stati per noi. In una reciprocità che è stata percepita e condivisa: «quando siamo arrivati a ottobre, abbiamo colto che tutti voi eravate sfiniti, dopo la prima ondata in cui era stata l’adrenalina a tenervi in piedi. Abbiamo sentito che noi potevamo mettere la nostra età, la forza fisica, la voglia di essere utili. E in tutto questo abbiamo ricevuto insegnamento, vicinanza, autentica formazione. Non ci siamo mai sentiti soli ed è stata un’esperienza che resterà per sempre».

È impossibile dire fino in fondo la nostra gratitudine per questi mesi, e per il momento di condivisione che abbiamo vissuto finalmente “da seduti” e con calma. Sarà troppo sperare che da questa straordinaria generazione di medici “al fronte del Covid” possa germogliare il seme di una nuova medicina?

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