La nuova chance degli Stati Uniti
Nessuno di noi ha potuto evitare di ritornare col pensiero alla drammatica sequenza di avvenimenti dell'11 settembre 2001. Come se fosse ancora necessario ricordarci che il mondo è cambiato con l'attentato terroristico più feroce mai conosciuto. A Boston certamente i danni sono stati minori e, soprattutto, non c'è alcuna certezza sui mandanti e sulla matrice dell'attentato.
Ma quel che richiede attenzione è la risposta che gli Stati Uniti daranno alla nuova sfida. Le prime parole di Barack Obama sono state improntate ala fermezza ma anche alla prudenza. Tutto il mondo spera che la questione non coinvolga fattori esterni agli Usa, e che in fondo il problema sia interno al Paese a stelle e strisce. A quel punto il presidente e l'amministrazione si troverebbero a confrontarsi su problemi di sicurezza gravissimi, ma pur sempre limitati.
Se invece si rivelasse una matrice esterna degli attentati, ecco che Obama potrebbe dare un segnale forte, mostrando che i tempi della famigerata teoria degli "Stati canaglia", sostenuta dall'American Enterprise Institut, sono ormai definitivamente sotterrati. L'infinita guerra in Afghanistan e quella quasi interminabile dell'Iraq; le tonnellate di tossine belliche sparse nel mondo musulmano dalle reazioni occidentali a completare un quadro inquietante di letture ideologiche del Corano; e l'incertezza derivata dalla interrotta transizione araba spingono a dire che è tempo di conciliazione più che di vendette, di concertazione più che di divisioni, di giustizia sociale più che di giustizia unilaterale.
E non posso allora non ricordare una stupefacente frase di Alexis de Toqueville, che due secoli fa aveva individuato nelle sue ricerche una verità fondamentale. Scriveva: «L'America è grande perché è buona. Se cessasse di essere buona, cesserebbe pure di essere grande».