La notte senza luce diurna di Toulouse-Lautrec
Henry de Toulouse-Lautrec – in mostra al romano Museo dell’Ara Pacis fino all’8 maggio (catalogo Skira) – vive e vede il mondo che lo circonda come se ormai la luce fosse solo artificiale, uomini e donne dei manichini per il piacere, la vita una noia che ride esibendo una felicità falsa.
Ha ritratto durante la sua breve vita gli spettacoli al Moulin Rouge ed altri luoghi delle notti parigine di fine Ottocento a Montmartre. Di più, ha vissuto qui ed ha “eternizzato” dive, divi, cantanti, ballerine, musicisti, borghesi e donnine. L’occhio implacabilmente sicuro di un regista amante del realismo quotidiano, delle effimere gioie della semi-mondanità degli spettacoli. Un occhio indagatore, anche beffardo, alla Transpotting.
Ma dentro tanta irrisione spietata, i primi piani delle persone, maschere come nel film Casanova di Fellini. Il manifesto col celebre attore di cabaret Aristide Bruant dall’immancabile sciarpa rossa (Fellini ne usava una bianca), la Clownessa del Moulin Rouge dal corpetto giallo a gambe larghe, lo sguardo perso dietro ai propri pensieri mentre la gente balla, come un “primo piano” ben messo a fuoco sono esempi di un pennello indagatore di un corpo che è un’anima assente, che fissa il vuoto.
La desolazione pare percorrere le opere di Lautrec, senza tuttavia amarezza e afasia, ma con un dolore sottinteso. Lautrec è maestro del dolore e la sua penna così duttile, che in pochi segni sintetizza un carattere, ricorda molto certo cinema di Bergman.
La gioia di alcuni personaggi suona così irrimediabilmente appiccicata. Il segno di Lautrec non si spaventa nel ritrarla, ma anche se ne fa partecipe, lui – un nano – che ha sublimato il proprio disagio immergendosi in un mondo antitetico al suo, aristocratico.
Potremmo parlare di un’arte psicanalitica, se si vuole, ed anche di uno Charlot che sorride, ma sorride amaro. Eppure, quanta umanità dietro questa apparente irrisione, quanta comprensione per una società futile che vuole divertirsi sfruttando gli emarginati.
Disegnatore dal tratto infallibile, colorista rapido e chiaro, bozzettista che in un disegno tratteggia un mondo, Lautrec nella rassegna che propone dal Museo di Budapest quasi 200 tra incisioni e disegni – senza contare i filmati d’epoca –, si rivela a noi senza complessi. Dice: «Io sono questo, parte di questo mondo, il sole è scomparso dietro l’orizzonte e non ne è comparso un altro sostitutivo».
Questi acrobati, questi signori in frack, queste donne che bevono assenzio o cambiano vestito nella solitudine di una stanza, le cavallerizze al circo che il suo pennello folgorante pubblicizza in un baleno, vivono nella notte del cuore.
C’è un disperato bisogno di affetto vero dentro e dietro l’opera di Lautrec. Che ha detto il mondo occidentale di oggi già un secolo fa, come sanno fare i geni, che sono anche ”profeti”.
Una mostra da non tralasciare, un viaggio dentro il mondo del divertimento che vuole annebbiare il dolore e la solitudine. Lautrec, senza saperlo, gira un docufilm di pregnante attualità. Ma col tratto del genio che scava nei corpi e nelle anime vuote, cercando nelle linee guizzanti un sussulto di luce.