La notte in cui Greccio fu Betlem
E' ormai Natale. Un'ultima fiaba, in attesa della notte santa.
Decisamente questa notte non è come le altre. La selva di annosi elci echeggia infatti di insoliti rumori, quando vicini e quando più lontani: è uno sfrascare, un chiacchiericcio inframezzato da richiami, da fresche risate infantili, il tutto sovrastato da inni e canti festosi che s’intrecciano, confondendosi, morendo qui per riprendere altrove.
Appaiono e scompaiono, nel folto, luci e fiammelle che, simili a sciami vaganti di lucciole, indicano in qualche modo un’unica direzione. Sono contadini e pastori accorsi da Greccio, ma anche da villaggi e casolari lontani: uomini, donne e perfino bambini, che sfidano il freddo pungente imbacuccati nei loro cappucci e mantelli di lana grezza; e sono frati venuti in processione dagli eremi di Fontecolombo, di Poggio Bustone e da altri luoghi, alle cui salmodie il popolo risponde come può.
L’animazione cresce man mano che si sale verso l’aereo balcone naturale dell’eremo, donde lo sguardo abbraccia l’ampia valle reatina: inondata dal chiarore che piove dal cielo stellato, somiglia a un lago, come forse dovette già essere in epoche remote. Da laggiù, al brusio che viene dal monte rispondono rintocchi di campane, distintissimi nell’aria tersa, e belati di pecore nel chiuso degli ovili.
Il grosso è ormai giunto, e il breve spiazzo erboso davanti alla grotta ha fatto presto a gremirsi; ora, chi ha smania di guardarci dentro deve sgomitare o cercare precari equilibri su qualche ramo o spuntone di roccia. Facendosi largo a fatica tra la calca, giunge pure messer Giovanni Velita, signore del luogo, e oltrepassata l’ultima siepe umana s’affaccia finalmente alla grotta, illuminata a giorno dall’incendio di non so quanti ceri. È una cavità non molto profonda, che riesce appena a contenere la greppia con la statuetta del Bambino, un bue ed un asinello (veri) da entrambi i lati, e lì accanto un altarino portatile di legno, già apparecchiato per celebrarvi i divini misteri.
Un impeto di gioia gonfia il petto di messer Giovanni. Francesco, il suo amico Francesco può essere soddisfatto di lui. Ma dov’è, a proposito? Eccolo andare e venire in mezzo agli altri frati affaccendati in mille preparativi, dare e ricevere saluti da quei grecciani che tanto ama, riamato. E come potrebbe essere altrimenti? In nessun’altra città se ne sono convertiti tanti alla sua predicazione quanti in quel minuscolo borgo del Reatino.
Ha già rivestito la dalmatica del diacono, ed ora osserva compiaciuto la scena; finché incrocia lo sguardo di messer Giovanni, cui fa un cenno festoso d’intesa. Sì, tutto è secondo i suoi desideri: sarà un Natale specialissimo, questo dell’anno di grazia 1223.
Da quando era tornato da Roma fuori di sé dalla gioia, sventolando sotto il naso dei suoi frati la bolla pontificia con cui vedeva riconosciuta la Regola, sua creatura, Francesco aveva messo in moto tutti, la mente occupata da un grande progetto, in vista delle festività ormai prossime. «Amico mio, quest’anno dovrà essere il più bel Natale che si sia mai veduto — aveva annunciato a messer Giovanni, giusto una quindicina di giorni fa —. In uno dei tuoi boschi intorno all’eremo di Greccio c’è una grotta simile a quella di Betlem. Ebbene, vorrei raffigurare in essa la natività di Nostro Signore e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo la povertà in cui egli, bambino, venne al mondo, come fu adagiato in una greppia e come vi giaceva tra il bue e l’asinello. Vuoi aiutarmi a preparare ciò?».
Né era strano, in uno come lui, avvezzo a contemplare in spirito i misteri soprannaturali, questo bisogno di «vedere con gli occhi del corpo»: sapeva bene Francesco, memore della recente visita fatta ai Luoghi Santi, quanto valgono a ravvivare la fede le testimonianze e i segni concreti. Questo appunto desiderava offrire a sé e ai suoi: una rievocazione tutta speciale dell’Incarnazione, atta ad accendere più gente possibile del suo stesso ardore.
E giacché per messer Giovanni un desiderio di quell’uomo di Dio era un ordine, s’era dato subito da fare per accontentarlo. Dato da fare?… Veramente non c’era stato molto da preparare, dal momento che tutto doveva avvenire nella massima umiltà e povertà, com’era stato appunto a Betlem. Proprio l’opposto di certi macchinosi e bizzarri drammoni liturgici, che sulle piazze o nelle chiese mandano in visibilio il popolino, a scapito talvolta della semplicità e schiettezza evangelica.
Qui invece si trattava di ben altro: la sacra rappresentazione sarebbe stata strettamente unita al sacrificio eucaristico, nel quale si perpetua l’Incarnazione e Dio si fa vertiginosamente alla portata di tutti. Questa la novità per la quale, dato anche il luogo inusitato scelto a tal scopo, Francesco aveva chiesto e ottenuto licenza addirittura dal Santo Padre per tacitare eventuali criticoni.
E la celebrazione inizia fra l’attento stupore di tutti, mentre gli sguardi corrono dalla greppia col Dio fatto Bambino all’altare dove tra poco misticamente, ma realmente, egli nascerà. È tutto così semplice, così evidente. Basta guardare, immedesimarsi, credere. Betlem è qui, dove ci sono contadini e pastori come quelli che accorsero all’annuncio celeste.
Nel silenzio della selva s’odono solo le parole del celebrante e l’alternarsi dei canti. Di quando in quando un refolo scompiglia gli elci che orlano la grotta, e ceri e fiaccole sembrano lì lì per estinguersi; poi però riprendono forza, e un po’ di tepore lo fanno anch’essi. Ma chi ci bada al freddo pungente di questa notte straordinaria?
Al loro riverbero messer Giovanni contempla questi volti dai tratti grossolani, assorti nel mistero: quasi non gli sembrano più quelli, ma singolarmente nobili, della nobiltà dei figli di Dio: la sola che lui, nobile anche di sangue, apprezzi, ora che ha imparato da Francesco dove cercare la vera ricchezza. È il Natale, che rivela fratelli.
Ed ecco il momento tanto atteso: con voce robusta, limpida, Francesco innalza il canto del Vangelo; poi, deposto il libro sacro, comincia a predicare in volgare, come il cuore gli detta. E il tema è lui, il Bambino di Betlem, il re dei re fattosi povero e umile per amore.
«Ti rendiamo grazie, Padre, perché hai fatto nascere lo stesso vero Dio e vero uomo dalla gloriosa sempre Vergine beatissima santa Maria. Da lei egli ricevette la carne della nostra fragile umanità…». Come suonano bene sulla bocca di Francesco quel nome, Gesù, e quell’appellativo, Bambino di Betlem. A udirlo si è penetrati di dolcezza e lui stesso, il Poverello, frena l’impeto del suo parlare per attardarsi a pronunciare quel caro nome, quasi vi assapori un gusto di miele.
«…Invero, benché il Signore abbia operato la nostra salvezza nelle altre solennità, fu dal giorno della sua nascita che egli si impegnò a salvarci. Per questo ogni cristiano esulti nel Signore e per amore di lui, il quale ha dato a noi tutto sé stesso, sia gioiosamente generoso non solo con i bisognosi, ma anche con gli animali e gli uccelli…».
Una pace benefica invade gli animi ormai dimentichi dei mali e degli affanni d’ogni giorno, la commozione apre una via al pianto anche in chi è più inasprito dalla vita — spesso una vita lontana dalla grazia di Dio. Lo stesso Francesco s’asciuga più di frequente gli occhi, e non solo a motivo della malattia che crudelmente lo affligge, portandolo alla cecità.
Nella foga del discorso, ora egli si avvicina alla greppia intiepidita dal fiato delle bestie, solleva delicatamente il Bambino depostovi e, quasi fosse un vero neonato, l’abbraccia. Messer Giovanni ha un tuffo al cuore, non credendo ai suoi occhi: dov’è finita l’inerte immagine di poc’anzi?
Quello che Francesco stringe in atto quasi di cullarlo è un corpicino che non ha nulla della lignea rigidità di prima e, così tenero, sembra ancor più indifeso. Come destandosi da un sonno, il piccino spalanca occhi viventi. È un attimo, poi la statuetta riprende il suo posto sul fieno. Nessuno ha notato nulla? Nessuno. Grande lo stupore di messer Giovanni, solo testimone dell’ineffabile evento.
La messa prosegue e il Bambino nasce davvero sui candidi lini dell’altare. Se non gli occhi del corpo, la fede ne rende tutti ugualmente certi, giacché qui il miracolo è velato dalle apparenze del pane.
L’aria vibra ancora dei canti natalizi, quando Francesco fa ritorno, pensoso, al suo eremo. E mentre rivolge un ultimo sguardo in direzione del borgo sperduto tra i monti, gli vien spontaneo parafrasare ciò che il profeta Michea aveva scritto di Betlem: «E tu, Greccio, non sei il più piccolo tra i paesini di questa terra italica, perché in te per la prima volta il mondo ha rivissuto con gli occhi del corpo i disagi del Figlio di Dio giacente nel presepio».