La nostra Chiesa

Il Sinodo si è concluso con messaggi e testimonianze di comunione, fraternità e speranza, superando il pessimismo e lo scetticismo della vigilia
sinodo dei vescovi

Qualcuno dirà che è esagerazione, entusiasmo illusorio, ma devo confessare – io, un tipo abbastanza critico – che questo titolo è vero. L’espressione si trova nel "Messaggio del Sinodo al Popolo di Dio" e sintetizza l’esperienza dei partecipanti a questo evento. È una smentita al pessimismo e allo scetticismo che preludevano l’inizio del Sinodo. La “desertificazione spirituale” descritta con onestà da Benedetto XVI nell’apertura dell’Anno della fede era interpretata da molti come fine della storia per la Chiesa: lo stesso papa gettava la spugna. Dimenticando invece che subito dopo aveva detto: «Nel deserto si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere».

Proprio così, una Chiesa senza l’“armatura di Saulle” – come aveva profetizzato Rosmini, riprendendo la figura di Davide che affronta Golia con la sola fionda –, fiduciosa unicamente nella forza dello Spirito che Gesù dà alla Chiesa, dove è sempre presente. Questo atteggiamento è stato tradotto con varie parole: fede, speranza, umiltà, conversione. Conversione personale di tutti, dal papa al bambino della prima comunione, per tendere a quella santità che è la radice dell’evangelizzazione (i santi sono i veri evangelizzatori, è stato ripetuto continuamente). Conversione pastorale (alludendo al Documento di Aparecida dei vescovi latino-americani, diventato una delle fonti del Sinodo), cioè, alleggerimento da tutte le strutture inutili e anacronistiche che intralciano il cammino missionario della Chiesa e turbano l’autenticità evangelica del suo volto davanti al mondo.

Due sono stati i poli fra i quali si sono svolti i lavori del Sinodo: il Vangelo di Gesù (la sua persona) e il mondo. Il cardinale congolese Monsengwo Pasinya ha detto plasticamente: la prima parola del Vangelo è “venite” e l’ultima “andate”. La prima preoccupazione è stata di essere fedeli a Gesù Cristo, di fare l’esperienza dell’incontro con Lui, personalmente e in comunità. Con questo messaggio nel cuore il discepolo va all’incontro col mondo, percorso dalla secolarizzazione, dal relativismo, dall’agnosticismo e ateismo, dall’ingiustizia che genera le povertà. Senza paura, attingendo dal suo pozzo l’acqua che placa la sete molte volte nascosta o dissimulata nel cuore degli uomini che incrocia sulle sue strade. E allo stesso tempo, ascoltando le parole vere – i semi del Verbo – che si trovano fuori dei confini della Chiesa e sono stimolo alla sua conversione.

Discepolo missionario – anche questa un’espressione di Aparecida – può riassumere efficacemente il programma che il Sinodo ha lanciato per tutta la Chiesa: discepolo che segue il Maestro per andare in missione con nel cuore il desiderio di condividere con tutti l’esperienza unica di Lui.

Tutto questo – e molto, molto di più – è emerso nel Sinodo. Utopia? Parole per far apparire di non aver lavorato invano per un mese? Non mi pare, e lo dico sulla base di tanti incontri con partecipanti all’evento. E porto tre argomenti. Anzitutto le molte esperienze di Nuova Evangelizzazione già in atto in tutti i continenti, presentate nel Sinodo, soprattutto dai laici (questa volta apparsi come veri protagonisti). Inoltre la presenza, più numerosa che mai, dei fratelli di altre Chiese cristiane, in primo luogo il Primate anglicano e il Patriarca di Costantinopoli: tutti hanno parlato e fraternizzato. E poi la comunione fra i partecipanti. Giovanni Paolo II aveva dato la “spiritualità di comunione” come programma della Chiesa per il Terzo Millennio. Si sta cominciando a metterla in pratica e i vescovi hanno dato il buon esempio: la maniera migliore per “celebrare” il 50° del  Vaticano II, che ha proposto la Chiesa comunione come una delle colonne portanti dell’“aggiornamento”.    
 
 
 

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