La “nostra” Chiara

Nel giorno di Santa Chiara, vi riproponiamo un approfondimento su Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, attraverso la voce dei suoi familiari, pubblicato nel 2009 su Città Nuova rivista
Articolo
Carla: Prima del focolare

 

Carla Graziadei, la sorella più giovane di Chiara, attualmente a Roma (mentre l’altra, Lilliana, è a Trento), ha rievocato, tra gli altri, questi episodi della sua infanzia.

 

«Io ero la mattacchiona di casa, vivacissima e sempre con la voglia di giocare. Chiara mi chiamava “Cuccioletta” perché ero la più piccola. Quando avevo combinato qualche monelleria, mi salvava sempre dalle botte del papà, che era molto severo.

«Verso i dodici anni, siccome ero insofferente alla “dottrina” (il catechismo), s’è occupata lei stessa di istruirmi. Mi ha anche insegnato questa preghiera che recito tuttora che ho ottantadue anni: “Gesù, oggi ti offro tutta la mia giornata. Fa’ che sia una continua donazione d’amore. Fa’ che non resti un solo istante lontana da te nel far qualcosa che non sia per te”.

«Mi ricordo che una volta la mamma le ha chiesto: “«Cos’hai intenzione di fare, Silvia (era il suo nome di battesimo), per il tuo futuro? Vai suora?”. Da come la vedeva comportarsi, infatti, sempre dolce, calma, assidua alla chiesa, era convintissima che sarebbe diventata religiosa. E la risposta: “Mamma, non andrei né suora né niente… mi sposerei piuttosto”. Tanto amava la famiglia, la amava in un modo incredibile.

«Comunque penso che avesse già in mente qualcosa, ma non sapeva cosa. Tant’è che un giorno, con questi dubbi dentro, è andata a pregare nella chiesetta di Santa Chiara, accanto all’ospedale dove Gino faceva l’assistente (è un episodio che lei mi ha sempre proibito di raccontare, ma ora forse posso dirlo). Era sola, e inginocchiata davanti al Santissimo ha chiesto un segno: “Se vuoi che faccia qualcosa, accendimi uno di quei lumini” (accanto al tabernacolo c’erano due lumini spenti). Come niente se n’è acceso uno che non aveva neanche l’olio.

«È stato allora che, “per fare una prova”, ha ottenuto una stanzetta dalle Dame di Sion che avevano il loro istituto presso un ospedale per tubercolotici, proprio accanto ai frati cappuccini. Il primario era il primo cugino di papà. Con un carretto, dalla nostra casa in via Goccia d’Oro siamo andati a portare lì un po’ di mobilio. Me lo ricordo perché ho spinto anch’io quel carretto. Poco dopo l’ha raggiunta la Natalia. È stata lei la primissima. Sono rimaste in quella stanzetta appena una settimana, poi hanno dovuto sloggiare perché le suore sono andate via.

«Poco dopo c’è stato il bombardamento del 13 maggio 1944 e noi siamo scappati nel bosco di Goccia d’Oro, in una grotta che esiste tuttora. Eravamo papà, mamma, io e mia sorella Lilliana, in attesa di sfollare a Centa, in Valsugana. Chiara è venuta lì per una notte, ci ha portato dalla casa semidistrutta due materassi ed altra roba scampata alle bombe. È stato allora che mi ha confidato: “Carla, non soffrire quando dirò alla mamma che devo andare via per rimanere a Trento con le mie compagne”. Io mi sono messa a piangere: non capivo perché lei volesse andare via di casa. Poi l’ha detto al papà, che l’ha protetta in una maniera incredibile. Alla mamma l’ha presentata così: “Vado all’ospedale di Santa Chiara ad aiutare Gino a tirar su i morti, e poi in una casetta…”. Era quella di piazza Cappuccini, dove sarebbe nato il primo focolare ».

 

Lella: L’eredità più grande

 

Figlia di Carla e Fabio Graziadei assieme a Fabiola e a Luigia, Agnese Pietrella (detta Lella) è madre di sei figli. Le ho chiesto cosa ha rappresentato per lei avere una zia come Chiara.

 

«Noi abbiamo sempre respirato in famiglia l’amore di lei verso noi: un amore grande, non generico, ma particolare per ciascuno. E questo (è la mia esperienza) caricandosi anche dei nostri problemi, ascoltandoci senza mai risparmiarsi. Se ho incontrato Dio come Padre, come amore gratuito, è perché ho visto la testimonianza della sua vita. È questa l’eredità più grande che ho ricevuto da lei.

Poi abbiamo percorso strade diverse: fidanzandomi col mio attuale marito, sono entrata nel cammino neocatecumenale, però questo ci ha avvicinate ancora di più perché il nostro rapporto andava al di là dei legami familiari.

«Con noi nipoti ha sempre fatto anche la zia, finché ha potuto ha cercato di riunire i parenti, quelli almeno che eravamo a Roma, due volte all’anno, in prossimità del Natale e a san Luigi (che era il nome dei suoi genitori). Erano feste nelle quali come prima cosa partecipavamo all’Eucaristia, poi si pranzava insieme e c’era lo scambio dei regali. Mi colpivano l’amore col quale aveva cercato un regalo particolare per ciascuno, e la sua gioia di stare in mezzo ai più piccoli».

 

Cosa puoi dirmi dell’ultimo periodo della sua malattia?

«Ho visto realizzarsi in lei la parola di san Paolo: “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo”. Io so di avere assistito alla morte di una santa, di una donna che ha saputo dire sempre di sì al Signore, portando a compimento un disegno di cui forse neanche noi parenti avevamo capito la portata».

 

So che, ancora al Gemelli, hai vissuto con lei un momento particolare.

«L’ultima volta che sono stata a trovarla (era mercoledì) le ho portato una icona della Natività dipinta da Kiko. Dopo avergliela messa sul comodino di fronte al suo letto, le ho preso la mano e ho incominciato a parlarle. Ormai diceva solo sì o no con la testa.

«Ad un tratto ho notato che lei guardava fisso in alto, di fronte a sé: aveva un viso così bello e sereno che le ho chiesto: “Zia, cosa stai guardando?” e mi sono girata: sul muro c’era un’altra immagine della Vergine con Gesù. “Zia – ho continuato -, ti sta parlando?”. Ha accennato di sì con la testa. Era un momento di tale intimità che quasi mi sono sentita di intralcio, così mi sono un po’ allontanata per poi andare via. Questa immagine di lei così serena mi ha dato tanta pace, mentre la domenica precedente ero rimasta addolorata nel vederla così sofferente, anche se non l’ho sentita mai lamentarsi».

 

Jacopo: La “mia” Chiara

 

Ed ora la testimonianza di un pronipote: Jacopo Lubich. Suo padre, Sergio, è figlio di Gino, fratello di Chiara.

 

Ero già grandicello quando ho scoperto, con stupore, che il vero nome di mia zia non era Chiara. Non era però importante con quale nome io la chiamassi, perché lei rimaneva sempre Chiara. Da sempre noi, familiari stretti, ci siamo resi conto che era una persona speciale, magnifica, anche se non siamo stati attivi nel Focolare.

Da parte mia mantengo il ricordo di quando, bambino, nel giorno di san Luigi accompagnavo i miei a casa sua a Rocca di Papa. Era una giornata fuori dal tempo e dallo spazio. Ricordo i prati di un verde acceso e alberi altissimi che generosamente offrivano la loro ombra. Sempre seguito con lo sguardo da persone che non conoscevo, ma che con il loro amore mi facevano sentire parte di qualcosa di grande, di solare. Quando, finito di giocare sui prati, correvo dove stavano i miei genitori e zii, quel salone luminosissimo mi dava l’impressione di entrare in un mondo nuovo fatto di silenzi, di sguardi e di sorrisi, in un’atmosfera raggiante e commovente. C’era Chiara su una poltrona, e tutti ordinatamente intorno a parlare con lei. Ignaro dell’importanza delle sue parole, raccattavo velocemente i regali che era solita farmi e come un fulmine scappavo fuori a giocare. È curioso ricordarlo oggi: ho l’impressione di fermare l’immagine di quel bambino per dirgli: “Dove corri? Non troverai nulla di importante lontano dalla voce di tua zia!”.

In effetti Chiara aveva una famiglia molto più grande di quella che immaginavo io: il mondo. Abbiamo sempre avuto la consapevolezza che questo suo rapporto con noi e con gli altri era la potenza del suo ideale, la sua missione. Non abbiamo preteso, come familiari più stretti, maggiori attenzioni. Capivamo che in lei viveva qualcosa che superava i legami di sangue. Potrebbe essere sembrata una zia un po’ assente, per via dei suoi numerosi viaggi, ma sinceramente a noi è sempre stata vicina, anche in capo al mondo.

Ricordo commosso l’ultimo giorno che l’ho incontrata da viva, a casa sua. Mi è terribilmente dispiaciuto vederla così assopita, così “spenta”. Non era da lei nemmeno immaginarla così immobile e vulnerabile. Ma è stata l’esperienza con la morte più felice che io abbia mai vissuto. La guardavo ed ero ben consapevole che sarebbe stata per l’ultima volta. Eppure, quando le ho sfiorato il braccio, ho avuto l’impressione che nulla stava morendo. Che qualcosa stava semplicemente mutando. E sono stato pervaso dalla magnifica sensazione di essere orgogliosamente un Lubich.

 

Gino: Siamo speculari l’uno all’altra

 

Gino Lubich, fratello di Chiara, è stato anche un indimenticabile compagno di lavoro e di vita per alcuni di noi di “Città nuova”. Prima che ci lasciasse nel 1993, in più occasioni Bennie Callebaut ed io abbiamo sentito da lui episodi noti e meno noti riguardanti il suo rapporto con lei. Ecco alcuni stralci di quelle interviste inedite.

 

So che nella vostra infanzia tu e Chiara eravate legatissimi. Ma poi avete percorso strade divergenti…

«Già. Mentre lei con altre ragazze andava preparando quasi un focolare prima di quello in piazza Cappuccini, io ero preso per il collo, più che dalla politica (anche se ero un dirigente comunista), da questa voglia di libertà. Non ne potevo più: prima il fascismo, dopo sotto ai tedeschi! La mia ossessione era quella di difendere la mia terra e di farla libera per quello che potevo. Con Chiara però non parlai mai di queste cose, perché la sentivo lontanissima; né lei mi parlò delle cose sue, probabilmente perché mi sentiva anche lei lontano.

«Io ero nel pieno di una crisi religiosa: scandalizzato dalla cattiva condotta di un prete, come spesso succede avevo buttato tutta la colpa sulla Chiesa. Da quel momento ero vissuto nel nulla. Buttarmi a capofitto nella lotta di liberazione, pur di trovare una fede che rimediasse alla carenza dell’altra, fu la mia salvezza. Lei invece la trovò dall’altra parte. Cioè erano maturate due conversioni completamente diverse, ma simultanee».

 

Saltiamo le successive vicende: la tua cattura da parte dei tedeschi, il carcere duro vicino a Bolzano, le torture… E a guerra finita, di nuovo libero di ritornare a Trento. Chiara allora viveva nel focolare di piazza Cappuccini. Qual è stata la tua prima impressione?

«Ricordo un viavai incredibile! Gente che portava patate, sacchetti di farina, scarpe, vestiti, poveracci che venivano a chiedere ciò di cui avevano bisogno e le pope che glielo davano. Era un vero e proprio centro di distribuzione. Chiara, tutta felice di rivedermi, mi raccontò come che s’erano trovate assieme nei rifugi antiaerei a leggere il Vangelo, quel Vamgelo che volevano vivere alla lettera, e come lo stavano applicando lì, nella più squallida povertà.

«Tornai altre volte: e sempre gente che andava e veniva. Quello che mi raccontavano le pope (le focolarine) mi piaceva tremendamente, ma dicevo: “Ma cosa volete risolvere con questo po’ di roba? Ci vuol altro!”».

«Arrivarono addirittura a nascondere dei criminali famosi come la “Pantera nera”, un’ebrea che aveva tradito la sua gente collaborando con i tedeschi. E anche per lei Chiara mi chiese aiuto.

«Queste cose non riuscivo a capirle: la guerra era finita, tutti tiravano un respiro di sollievo e loro si occupavano di disgraziati che erano stati la causa di tanti massacri, ma che in quel momento erano le vittime. E tuttavia rimanevo incantato da questa loro passione».

 

Ma tu ti sei accorto che nasceva una spiritualità nuova nella Chiesa?

«No. Siccome san Francesco è stato sempre il mio santo preferito, la vedevo come una rinascita religiosa in seno al francescanesimo, talmente erano dedite ai poveri e a disposizione di chiunque avesse bisogno giorno e notte, sempre in viaggio su nelle soffitte, giù nelle cantine. Davano l’idea di una “macchina” il cui lubrificante era l’amore, di “pazze del Signore” perché si comportavano in modo anomalo sotto tutti i punti di vista, ma centravano una cosa stupenda. Io poi avevo cercato la soluzione al problema sociale nel marxismo, non inteso come religione, ma come indicazione pratica. Sentivo che con quel bagaglio di convinzioni potevo anche affrontare la morte. Fui anche condannato a morte: non m’importò niente. Probabilmente ero nello stesso stato d’animo dei martiri cristiani come purezza d’intenzioni.

«Chiara invece aveva trovato un’altra strada. Ma su questa fraternità io e lei c’intendevamo molto. E ricordo che quando su quest’argomento mi ha scritto facendo un tentativo di andare più in profondità, io le ho risposto a mia volta: “Guarda che siamo uguali, siamo soltanto ‘speculari’ l’uno all’altra: tu agisci sopratutto sotto la spinta dello Spirito, io sotto la spinta umana e per ragioni umanitarie. Ma il nostro fine è uguale”. Allora io immaginavo che sarebbe venuto fuori un movimento per i poveri, e questa impressione mi è stata confermata – dopo sposato, quando sono venuto a Roma – visitando il focolare della Garbatella, dove vivevano come i terzomondiali di adesso.

«È stata un’avventura affascinante anche per chi la guardava dal di fuori senza fede come ero io, che mi faceva dire: “Perché non facciamo così anche noi comunisti?”. In certi momenti avevo degli struggimenti dentro di me: “Mannaggia, se potessi esser così!”. E mi dicevo: ci siamo, questa è la volta buona, è la rinascita. Perché io sentivo tanto il bisogno che la Chiesa si rinnovasse».

 

Di cosa parlate adesso, quando ti capita di incontrarla?

«Delle cose più varie. Ci si mette al corrente ciascuno di come si sta, dei parenti. Poi lei ha un modo strano di raccontarmi le cose del movimento. Per esempio, a proposito dei suoi viaggi, non indugia su cosa ha detto o fatto, ma di quel dato posto racconta quello che può interessarmi come giornalista. Tra noi c’è una comprensione tale che lei non ha finito di dire una cosa che io ho già capito cosa voleva dire; e viceversa. C’è questo rapporto di grande amore fraterno, ma che si manifesta in piccole cose. Per esempio, durante la mia malattia, quando mi sono alzato dal letto ha voluto aiutarmi a camminare facendomi appoggiare a lei. Poi s’è accorta che non possedevo niente da mettermi indosso per stare in casa, e allora la volta dopo mi ha portato una giacca da camera. Sono delicatezze che parlano più di romanzi tra noi».

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