La nostalgia e l’attualità
Una cittadina di poco più di 20 mila abitanti di cui circa 4 mila immigrati, poco distante, una ventina di km, dal suo capoluogo di provincia, Bergamo. Dagli anni ’90 ad oggi sono arrivati albanesi, rumeni, marocchini, senegalesi, indiani, pachistani, portando con sé le proprie tradizioni culturali e religiose e non di rado le famiglie con moglie e figli piccoli. E anche se in questi ultimi anni non pochi sono stati quelli che, in conseguenza della scarsità di lavoro hanno fatto rientro nei propri Paesi, quella non originariamente italiana è una fetta consistente della popolazione locale.
Anche i bambini e i ragazzi non mancano a Romano di Lombardia. Lo testimonia la presenza di tre scuole materne, quattro scuole primarie, due secondarie e alcuni istituti superiori. «L’attenzione alle nuove generazioni e la presenza così consistente di immigrati – mi racconta Stefano, uno dei promotori di quanto raccontiamo – ci hanno interpellato. A dire il vero, siamo partiti da un po’ di nostalgia, pensando a quando da giovani avevamo creato un gruppo teatrale col quale avevamo fatto delle bellissime esperienze. Comunque, anche se la nostalgia può non essere positiva, nel nostro caso ci ha dato la spinta a inventarci qualcosa per i nostri ragazzi».
Fuori le competenze, dunque: Max ritira fuori il talento teatrale, Silvio mette in campo la propria professionalità come psicologo, Stefano, che anima un gruppo e segue una band musicale, si rende disponibile per il coinvolgimento dei ragazzi. Nel tempo si aggiungono altri che non fanno parte del gruppo iniziale, ma che si dimostrano interessati ai progetti che via via nascono: un amico specialista in trampoli; un’artista che anima un laboratorio di art attack; due ragazze che tengono il laboratorio di teatro per i bambini più piccoli; qualcuno che mette su un laboratorio di cucina.
All’inizio infatti, 10 anni fa, le attività erano indirizzate soprattutto ai bambini e ai ragazzi. A un certo punto, però, i nostri amici si interrogano su come intavolare un rapporto anche con i loro genitori. Da qui l’idea di far partire dei laboratori di genitorialità, di cucito e via via anche di dialogo interreligioso soprattutto con i musulmani, ma anche con i sikh e con i cristiani di varie confessioni.
I laboratori, da settembre a maggio, vengono svolti all’interno dell’oratorio di una delle due parrocchie di Romano che comunque sono entrambe coinvolte nel progetto. E a maggio un appuntamento cittadino: la festa dei popoli che vede da tre anni a questa parte anche un pranzo dei popoli, dove ciascuno porta i prodotti tipici.
Prima di condividere i piatti preparati con cura, si recitano le preghiere delle diverse tradizioni religiose presenti e si sottoscrive un patto di fraternità che in una pergamena viene poi consegnato dal sindaco ad ogni associazione. «A fine agosto una di queste associazioni – racconta il nostro Stefano – ha contattato la nostra associazione, Coloriamo la città, per fare qualcosa per i terremotati di Amatrice. Il sindaco ci ha spianato la strada per tutto l’aspetto burocratico, uno chef di professione si è reso disponibile e siamo riusciti così ad offrire 1200 piatti di spaghetti all’amatriciana, con una variante adatta ai musulmani».
Il sindaco appunto. «Un altro aspetto interessante è stato rapportarci con le istituzioni, con le amministrazioni che in questi anni si sono succedute. Al di là del colore politico, per tutti la Festa dei popoli è stata ed è un momento importante della vita cittadina e così le altre manifestazioni comuni», commenta Stefano. Gli chiedo com’è nel quotidiano il rapporto degli abitanti di Romano con i nuovi arrivati. «Non tutti in città sono disponibili e la paura del diverso non manca – mi spiega il mio interlocutore –, ma non mancano rapporti di buon vicinato. Ci sono comunità che hanno di più la tendenza a stare fra di loro, altre più vivaci e aperte, qualcuna più problematica. Il laboratorio interreligioso è in questo senso una opportunità importante.
Gli immigrati per poter interagire meglio con la città si sono costituiti in associazioni e quindi anche loro organizzano momenti di riflessione su tematiche specifiche a cui invitano tutta la comunità cittadina».
Dopo 10 anni non vi siete stancati? «No, l’entusiasmo c’è sempre e l’aspetto interessante è che ormai è un progetto condiviso da tanti, quindi non sentiamo il peso dell’organizzazione. Il trucco è prima di tutto avere un sogno e continuare ad alimentarlo, non tenerlo dentro, ma cercare di condividerlo con le persone che sappiamo sensibili, non necessariamente con quelli che conosciamo di più».