La nonviolenza di papa Francesco

Una lettura del messaggio per la Giornata Mondiale della Pace. Una vera e propria metodologia che passa dal livello locale a quello globale

Il messaggio di papa Francesco in occasione del 1 gennaio, Giornata mondiale della Pace voluta da Paolo VI esattamente mezzo secolo fa, va molto al di là del cinquantesimo anniversario di una iniziativa pur profetica come tanti dei passi compiuti da papa Montini. La voce del papa bresciano si era rivolta a tutti i popoli in un momento in cui la pace era veramente in pericolo – si era in piena Guerra Fredda e solo qualche anno prima si era evitato un confronto pericolosissimo fra le due grandi potenze per via di Cuba -. Allora il pericolo era una guerra nucleare, che poteva rappresentare la fine dell’umanità. Oggi il papa argentino parla a un mondo, dove il pericolo non è più o, meglio, non è solo, un conflitto globale, ma è piuttosto quello di un ‘mondo frantumato’ e di una ‘guerra a pezzi’ che continua a mietere vittime in ogni angolo del pianeta. L’attentato di Istanbul di poche ore prima ne è l’immagine drammaticamente significativa. La risposta non sono né la guerra né la vendetta. «Quando sanno resistere alla tentazione della vendetta – sottolinea papa Francesco – le vittime della violenza possono essere i protagonisti più credibili di processi nonviolenti di costruzione della pace».

 

Per questo in occasione del mezzo secolo di questa giornata della pace, il papa più che al fine – la pace appunto – invita tutti a guardare alla via, ad un metodo credibile e perseguibile e sceglie proprio la non-violenza. La sua proposta è, come ci ha abituato questo papa, coraggiosa e universale. Bergoglio propone a cuore del suo messaggio la non-violenza «come stile di una politica di pace». Non solo. Chiede «a Dio di aiutare tutti noi ad attingere alla nonviolenza nelle profondità dei nostri sentimenti e valori personali» ed auspica «che siano la carità e la nonviolenza a guidare il modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri nei rapporti interpersonali, in quelli sociali e in quelli internazionali». Se è vero che oggi è necessario agire localmente con uno sguardo globale, papa Francesco auspica che «dal livello locale e quotidiano fino a quello dell’ordine mondiale, possa la nonviolenza diventare lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme». Fin qui una lettura, direi, aperta del messaggio di pace, coraggioso e puntuale.

 

Vorrei spingermi oltre. Mi sembra, infatti, che, al di là dei contenuti immediati, possiamo scoprire qualcosa di nuovo fra le righe di questo testo. Sono convinto, infatti, che questo papa compia un passo storico anche da un’altra prospettiva che può fornire, a noi cristiani, e a noi cattolici in particolare, una lettura importante all’interno di questo mondo ormai culturalmente e religiosamente plurale anche a livello locale. Il punto in questione è proprio la categoria della non-violenza. Non è la prima volta che un papa ne parla. Lo stesso papa Francesco nel suo messaggio cita Benedetto XVI che ne ha riferito in diverse occasioni, definendola, fra l’altro, «realistica, perché tiene conto che nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia, e dunque non si può superare questa situazione se non contrapponendo un di più di amore, un di più di bontà». E questo ‘di più’, indica Benedetto XVI, viene da Dio. Lo stesso papa emerito era andato oltre ed aveva tracciato una fisionomia antropologica del concetto di non-violenza, chiarendo che «per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto dell’amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità».

La novità della scelta attuale di papa Francesco sta nel proporre a tutti gli uomini e donne della terra una categoria che, sebbene pregna di senso cristiano, non appartiene, in prima istanza, al Vangelo e alla tradizione e cultura che da esso discendono. La non-violenza, infatti, ha una radice remota in altre culture e in testi religiosi precedenti alla cultura ebraico-cristiana. La ahimsa – la non-violenza appunto – è un concetto ed una virtù della tradizione giainista che fa parte della grande famiglia del sanatana dharma, le religioni dell’India. Se ne parla già, più di mille anni prima di Cristo, nei Veda e nelle Upanishad e la sua radice indica, come in tutti i termini sanskriti, il suo significato profondo: himsā (atto di violenza o di ferire) preceduto da un a privativo. Dunque, assenza di violenza. Nei testi sacri di queste religioni si trova anche il senso di una tale virtù, legato alla prospettiva di fondo che le religioni e filosofie dell’India hanno sempre proposto: vasudhaiva kutumbakam, il mondo è una famiglia. L’Yayur Veda, per esempio, afferma: «Che tutti gli esseri guardino a me con occhio amico, e che io possa fare lo stesso e che tutti possiamo guardarci l’un l’altro con occhi di amici».

 

Chi ha riproposto in termini attuali vicini a noi, nel corso del secolo passato, il concetto di ahimsa è stato il Mahatma Gandhi, citato da papa Francesco nel messaggio per la Giornata mondiale della Pace insieme ad altri testimoni della non-violenza – Khan Abdul Ghaffar Khan, Martin Luther King Jr, Leymah Gbowee – che hanno avuto il coraggio di viverla ed applicarla nei loro contesti storici, tutt’altro che facili, arrivando a soluzioni di pace, evitando inutili conflitti.

Francesco, tuttavia, coniuga la non-violenza con la figura di Cristo, ricordando che «anche Gesù visse in tempi di violenza. Egli insegnò che il vero campo di battaglia, in cui si affrontano la violenza e la pace, è il cuore umano: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive» (Mc 7,21)». Il papa ricorda quanto lo stesso messaggio di Cristo offra una risposta radicalmente positiva: «Egli predicò instancabilmente l’amore incondizionato di Dio che accoglie e perdona e insegnò ai suoi discepoli ad amare i nemici e a porgere l’altra guancia».  Soprattutto, ci mostra una serie di momenti della sua vita in cui da uomo seppe vivere questo valore e questa virtù.

Un messaggio di pace, dunque, che ci indica una metodologia – la non-violenza – che tutti possiamo applicare nella nostra vita quotidiana per iniettare nel mondo una buona dose di fraternità. Ma anche un messaggio concreto per saper cogliere la presenza della sapienza divina in ogni cultura e religione, come patrimonio universale della grande famiglia umana. Parlare di non-violenza oggi dal pulpito della cattedra di Pietro significa che la Chiesa ha ormai fatto sue le indicazioni conciliari che, ancora timidamente ma chiaramente, indicavano una strada nuova. «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni», recitava Nostra Aetate, il documento conciliare che invitava la Chiesa ad aprirsi alle altre culture e religioni. Papa Francesco propone proprio una di queste verità a tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Una lezione importante soprattutto per noi cristiani. Una via di pace che va dritta all’incontro fra uomini e donne di culture diverse.

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