La non violenza e la dignità

Sfide e opportunità dopo la manifestazione della Fiom in un mondo del lavoro che rimane difficile e conflittuale.
Manifestazione Fiom 16 ottobre

Sarebbe stato sufficiente un solo uovo lanciato tra la folla, la minima provocazione o, al limite, un’imprecazione dal palco, e la notizia del corteo Fiom, che ha invaso Roma sabato 16 ottobre, avrebbe occupato l’attenzione dei media per qualche giorno. E invece c’è stato solo lo spazio della cronaca di un corteo pacifico.

 

Una lunga sfilata di caschetti rossi è stata la risposta alla richiesta di solidarietà da parte dei metalmeccanici della Cgil: non volevano rimanere soli di fronte a quello che definiscono «un attacco senza precedenti alla dignità del lavoro». In questo senso la manifestazione di sabato ha avuto connotati politici, ma non come passerella di politici venuti a chiedere l’applauso. I vari rappresentanti di una sinistra frantumata e in perenne contrasto interno erano presenti tra quella folla che un tempo aveva un forte riferimento nel più grande partito comunista dell’Occidente, il Pci. Adesso le cose sono molto diverse. Anche se le parole d’ordine che hanno accomunato le varie anime del corteo sono state quelle del rifiuto di un “patto sociale” considerato iniquo.

 

L’intervento di Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, non ha negato la disponibilità a stabilire un accordo con gli imprenditori, ma ha sottolineato la necessità di contrattare le condizioni di lavoro senza subire ricatti come quello della possibile fuga dei capitali all’estero, superando anche l’inerzia dei governi. In questo senso, secondo la Fiom, il referendum di Pomigliano rappresenta il caso eclatante di una consultazione imposta senza alternative tra la vita e la morte dell’azienda (e quindi dei lavoratori), reso ancor più drammatico da un contesto sociale dove, come osservano alcuni, l’alternativa rimane solo l’economia camorristica dei sottoscala, dove si lavora 12 ore al giorno senza contratto.

 

«L’obiettivo vero- ha affermato Landini- è cancellare il diritto delle persone che lavorano in fabbrica di poter contrattare, di esser persone libere con la possibilità di far funzionare meglio la fabbrica. Vuol dire farci tornare indietro di cento anni».  Analisi che contrastano in maniera radicale con le tesi di Cisl e Uil, per non dire delle altre sigle minori, ma che intercettano il consenso di una parte significativa della società civile intervenuta nel corteo.

Con orgoglio, gli organizzatori hanno voluto manifestare un’alterità sostanziale. Come è stato per gli operai di Melfi, licenziati dalla Fiat con l’accusa di sabotaggio dei robot. Giovanni Barozzino, da portavoce parla a braccio dell’anomalia di un’azienda che chiede l’intensificazione degli orari e dei ritmi di lavoro mentre manda le persone in «quella cassa integrazione che viene pagata dalla collettività». «La dignità umana non si può quotare in Borsa», è stato il suo appello conclusivo.

 

Lo sciopero generale è stata la richiesta della piazza al fine di riequilibrare i rapporti con Confindustria e con il governo. Una proposta esigente a cui fanno da contrasto i giudizi del ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, che ha definito la manifestazione.  «espressione di una cultura vecchia e inadeguata, ferma agli anni Settanta».

Guglielmo Epifani, segretario uscente della Cgil, ha cercato la mediazione, rimandando la decisione sulla proclamazione di un’astensione generale dal lavoro, al pari di come sta avvenendo in Grecia e in Francia, che non potrà che segnare ulteriori divisioni su un fronte sindacale, chiamato a contarsi, e alimentare una tensione che sarebbe difficile controllare.

 

Resta impressa un’immagine: mentre Epifani si allontanava con la sua macchina, un gruppo di famiglie, con bandiere Fiom e passeggini, ha attraversato lo schieramento della polizia antisommossa, quasi a voler contraddire il clima di paura che si era innescato alla vigilia.

Un segnale che rimanda alle tante assemblee, promosse dai metalmeccanici della Cgil per preparare la manifestazione, dove si è affrontata la questione della convinta scelta non violenta come risposta più adeguata per rispondere ad un’altra violenza: quella che del capitalismo finanziario irresponsabile. Dibattito sempre aperto. Che non vede tutti concordi, ma che rappresenta, di certo, una buona traccia da cui potrebbe ripartire un dialogo autentico, a cominciare dai veri contenuti della dignità del lavoro. Una responsabilità collettiva da non eludere.   

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