La nave sepolta

Su Netflix, tra i più seguiti c’è un bel film diretto dall’australiano Simon Stone, La nave sepolta. La storia - vera - si svolge nei luoghi del Sussex in Inghilterra nel 1939, nella località Sutten-Hoo.

Protagonista de La nave sepolta è Edith Pretty (una intensa Carey Mulligan), vedova benestante, proprietaria di una vasta terra. Ha la percezione che sotto alcuni grandi tumuli ci possano essere vestigia antiche. La donna è intelligente, colta, malata di cuore ed è madre di un ragazzino sveglio e dolce, Robert. Incarica  uno “scavatore” più che un archeologo – un autodidatta,  snobbato per questo dalle autorità accademiche – ad indagare. E l’uomo, Basil Brown (il solito perfetto Joseph Finnes) solitario e disordinato, con la pipa in bocca e il badile, scava giorno dopo giorno tra la pioggia e il sole, fra dubbi e paure. Finché scopre i resti di una antichissima nave, capace di venti rematori, sepolta sotto il cumulo. Anzi, trova un autentico corredo di 250 oggetti anche dorati in quella zona che rivela ben due cimiteri. Gli accademici giunti da Londra snobbano Basil e prendono in mano la situazione, ma la donna resiste e favorisce lo “scavatore”. Decenni di tesi storiche svaniscono di colpo: la nave non è vichinga, ma del VI-VII secolo ed appartiene al re anglosassone Readwald. Alla fine, quando i cieli sono attraversati dagli aerei di guerra e il conflitto Inghilterra-Germania è  iniziato, il tesoro sarà salvato ed oggi è esposto al British Museum di Londra con la targa degli scopritori, cioè Edith e Basil.

Tutto qui? Il film, tratto dal romanzo del 2007 di Simon Stone, parrebbe un racconto leggero e senza pensieri,  con ben poca azione e avventura. La regia è scorrevole, i personaggi delineati con sufficiente verità, i dialoghi ben pensati, gli attori preparati.

Invece, l’avventura è tutta interiore, nella lentezza dei sentimenti che vengono fuori lentamente come si estrae il tesoro. Il ritmo calmo dà spazio e consistenza, nel difficile tempo di guerra e di dolore – simile al nostro -, alla costanza ed alla fortezza d’animo dei protagonisti e degli altri non secondari personaggi: il giovane militare che s’innamora dell’archeologa trascurata dal marito, la moglie comprensiva di Basil, il ragazzino orfano che si attacca allo scavatore e ne cerca l’affetto paterno.

Ai momenti di sospensione e anche di malinconia, si alternano battute che paiono buttate là a caso, mentre dicono molto. Edith che sa di dover morire dice a Basil: «Noi moriamo  e scompariamo, non resta nulla». E lui: «La vita è breve, ci sono momenti che vanno colti… Noi facciamo parte del tempo che continua, perciò non moriamo». Ma a che serve allora l’archeologia mentre c’è la guerra che distruggerà ogni cosa?. «Noi scaviamo – afferma Basil – perché le generazioni future conoscano la vita da dove sono venute».

«Noi riveliamo la vita, conclude Brown, per questo scaviamo». Nella chiarezza di un film dove l’azione è nei sentimenti, c’è una verità profonda adatta ad oggi: la vita è speranza, è non arrendersi alle durezze ma perseverare in essa con lenta decisione.

 

 

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