La musica e il canto
Immaginate la scena. Una piazza piena di gente venuta apposta per sentire quattro giovani sassofonisti che suonano, chi per finire di pagarsi lo strumento, chi per mettere da parte qualche soldo per le vacanze. E suonano il jazz, in un modo formidabile. Don’t worry be happy con variazioni sul tema, arrangiamento per quartetto di sax. La gente porta il tempo con le mani. Qualcuno ha iniziato anche a ballare. Arriva la polizia, interrompendo tutto: “Un signore che abita al terzo piano di quel palazzo si è lamentato per la confusione. Ci dispiace, ma dal momento che non avete l’autorizzazione per esibirvi in pubblico, dovete smettere”. “Come sarebbe a dire: non hanno l’autorizzazione? – grida un signore distinto in giacca e cravatta -. E quella band di peruviani che suona dall’altro lato della piazza, ce l’ha l’autorizzazione? E il giovane che spaccia la droga sotto il Barbakan? I ritrattisti del Rinek? Il mimo-robot? Per cortesia, lasciate in pace questi ragazzi che fanno un servizio alla società, suonando una gran bella musica e per giunta gratis, mentre la città è piena di delinquenti, ladri e truffatori ad ogni angolo di strada!”. A questo punto entrano in scena un punk, una nonna col nipotino e un tipo buffo con un metro al collo a mo’ di collana, persone che a metterle insieme non ci starebbero mai, solo la musica fa certi miracoli. “Non c’è libertà in questo paese!”, sentenzia il tipo buffo. “Siamo ancora ai tempi del regime!”, replica la nonna con il nipotino. E il punk, informatissimo di politica estera: “Come volete che entriamo nella Comunità europea?!”. La polizia tace. “Stiamo uccidendo la cultura!”, ritorna all’attacco il signore distinto. “Non è dalla musica che dovete difendere la gente”, rincara la dose il punk, con tono acido. “Noi stiamo solo facendo il nostro dovere”, ribatte uno dei poliziotti, impassibile. “Murategli la finestra al signore del terzo piano!” risponde a sua volta il tipo buffo, in crescente eccitazione. E così via per buoni venti minuti, in un piccolo teatro popolare che ricorda la migliore scuola partenopea. Risultato finale: il quartetto jazz deve ugualmente rimandare l’esibizione. Pazienza, neanche questa volta – la terza sera consecutiva – ho fatto in tempo a sentire suonare il mio amico, uno dei quattro musicisti. La serata potrebbe tranquillamente finire così, prendendola con filosofia, senza una bella musica da fischiettare tornando a casa, se non fosse per la proposta inattesa di un amico: “Alle 20:00 c’è la Messa da Requiem di Mozart. È qui vicino; andiamo?”. Non è esattamente la musica che avevo in mente, ma… “Ok, andiamo “. Il concerto è in una chiesa. Non si fa fatica ad immaginare lo svolgersi della liturgia sottintesa, i gesti e le parole di un sacerdote che non c’era, una messa che nessuno sta celebrando. Tutto del resto in quella musica è preghiera; ogni nota, ogni parola. Accorata preghiera di un uomo che muore e cerca di farlo glorificando Dio, anche se nella povertà e nella malattia. Perché pare che così sia morto Mozart. “Sto componendo questo Requiem per me stesso; servirà per il mio funerale”. Non sappiamo quanta sia la verità e quanto il mito, in queste parole attribuite a Mozart in una delle sue biografie, ma conosciamo la musica dei suoi ultimi giorni. Musica che non fece in tempo a finire, riservandosi il gran finale per un’altra scena ed un altro pubblico (forse lui ce l’aveva in mente, ma doveva essere musica per angeli, più che per uomini). Quello che fece in tempo a comporre (musica per uomini) è un capolavoro di una tristezza meravigliosa. È incredibile quante cose si possano dire con la musica. Quante storie in una storia sola, quante tragedie in una sola frase, quante speranze in una nota. Siamo arrivati all’Agnus Dei. A questo punto Mozart muore. Così, come ogni essere umano quando arriva la sua ora. All’inizio ci rimani un po’ male, ti prende quel vago disagio che le cose incompiute lasciano. In fondo mancava poco, che fretta c’era di andarsene, ti viene da dire. Poi capisci che è giusto così. E anche più bello. Ché se l’avesse concluso, il suo Requiem, sarebbe stata un’opera senza dubbio grandiosa, ma finita. Punto e basta. Invece così è un’opera in certo modo infinita. E quale modo migliore per esprimere una cosa tanto grave e definitiva, quale è la morte di un uomo, di dirla senza finire di dirla? spogliando la parola fine dell’orrore dell’ultima parola? Mozart ci lascia, morendo, un’opera infinita, che è una promessa d’immortalità. Nonostante questo, doveva in qualche modo finire, perché la gente non può concedersi il lusso di aspettare un’eternità per sentire il finale, anche se meriterebbe. Finisce con l’Agnus Dei. Poi applausi interminabili. Adesso ci si alza e si va via in silenzio, penso io. Non mi sfiora neanche l’idea che possa esserci un bis. Senonché il coro riprende il Lacrimosa, rispondendo alla richiesta non formulata, ma evidente, di gran parte del pubblico. Infine il Benedictus. Ancora applausi, a sfumare. Questa volta si va via per davvero, con una musica infinita nel cuore. Qualcuno ha un attimo d’esitazione davanti alla porta. Farsi o non farsi il segno della croce prima di uscire? È una storia piccola, ma vera, fatta di musica e silenzio. Così piccola che inizi a raccontarla ed è già finita. Potrebbe dir poco, potrebbe dire molto. A me ha fatto bene. Ve la racconto. Una ragazza scrisse un canto. Lo coltivò dapprima nel silenzio. Gli creò un spazio nell’anima. Raccolse solitudini, tristezze che altre volte aveva fuggito. Le accolse nel suo cuore, seppe gustarne e capirne il segreto. Il vuoto, la lontanza degli uomini divenne presto vicinanza di Dio. Così un giorno sentì il suo canto. Le parve in principio un sussurro sommesso, poi riconobbe con chiarezza tre voci. Prese in fretta la penna e trascrisse: una voce bassa, una voce alta, una melodia centrale. Le suonò una alla volta, con la chitarra, poi nella mente,simultaneamente e si sorprese di riconoscere in quello che aveva scritto la musica esatta che il suo cuore le aveva dettato. Con simile slancio scrisse di seguito altri due canti, entrambi a tre voci. Li suonò una volta, fece qualche ritocco e pensò che niente fosse più da cambiare. Le sembrava tuttavia che mancasse qualcosa. Si era ormai svuotata di ogni nota, ma nell’anima risuonava incessante un altro canto, una voce più forte delle altre, assordante come un urlo non gridato. Una voce muta, un canto taciuto. Capì che quel canto cercava quella voce, per essere cantato. E che non era necessario scriverlo, perché quella voce lo avrebbe inventato. Si decise a rinunciare ai suoi primi tre canti perché il quarto trovasse la sua voce. Era disposta anche a questo, lo manifestò apertamente, suscitando incomprensioni e dissenso; ma non si arrese, sarebbe andata fino in fondo. Cercò quella voce e senza fatica la trovò in un ragazzina di nome Iulia. Iulia non aveva mai cantato, ma avrebbe tanto voluto. C’era troppa tristezza nel suo cuore, da potersi esaurire nella parole. Solo la musica avrebbe detto tutto e forse tutto sarebbe stato più leggero. Allora lei le mise sulla bocca il suo canto e nella sua anima tornò il silenzio. Un legame nuovo era nato tra di loro. Adesso Iulia era una voce in un coro.