La Mostra di Venezia cerca storie

Diverse ambientazioni, storie di vita, personaggi che fanno riflettere. Sono tante le pellicole portate al Palazzo del cinema di Venezia, ma solo alcune si contendono il Leone    
Susanna Nicchiarelli, regista di Missa Marx (Photo by Joel C Ryan/Invision/AP)

Siamo ormai entrati nel vivo della rassegna veneziana che  si guarda in giro nel mondo, proponendo storie diverse. Legate però a quanto pare, da un unico filo: la ricerca della felicità.

È forse questo il senso più profondo di Miss Marx, il film che Susanna Nicchiarelli dedica all’ultima figlia di Karl Marx. Intelligente, decisa, amata-sfruttata da un padre molto meno nobile nel privato di quanto si pensi, la donna lotta a favore della libertà femminile, delle giustizie sociali con una determinazione ammirevole. Ma sul piano personale vive una storia d’amore così infelice da portarla al suicidio. L’amante, lo scrittore Edward Aveling, è infatti un uomo amorale che la sfrutta e lentamente la distrugge intimamente. La regista, grazie ad una interprete perfetta come Romola Garai, indaga con delicatezza e forza la vicenda della terzogenita del filosofo, tanto combattiva in pubblico quanto desolata nel privato, succube di un rapporto a cui non riesce a reagire. È il dissidio fra ideale e reale, ragione e sentimento.  È merito della Nicchiarelli, nel classico film in costume e con la consueta voce fuori campo – che si poteva evitare perché rallenta il ritmo – averlo espresso con la verità di una luce che varia a seconda delle situazioni – fangosa nelle fabbriche e nei quartieri poveri, lucida negli interni borghesi – e racconta da sola la vicenda. In odore di Leone.

Ancora una donna, rivoluzionaria, comunista convinta nel film- bellissimo bianco e nero – di Andrei Konchaloski Dorogie Tovarischi! Ossia Cari Compagni!. Il regista racconta un episodio nascosto a lungo dalle autorità sovietiche: il massacro effettuato dall’esercito – o meglio dal KGB – durante lo sciopero degli operai della fabbrica di locomotive a Novocherkassk nel 1962, in piena epoca di Kruscev de-staliniana. Lyudmila è comunista  nostalgica di Stalin, con un figlia ribelle ed è una dirigente del partito locale. La città sarà sconvolta dallo sciopero a cui il partito reagisce uccidendo e ferendo. Il mito della libertà va in crisi. La donna è combattuta tra la fedeltà al suo ideale – i vertici del partito recitano una sceneggiata quasi ridicola -e la ricerca della figlia che l’angoscia tanto da tornare a pregare. Ma non c’è equilibrio in lei e la conclusione, insieme alla figlia ritrovata, sarà quella di sperare. Che ritorni Stalin? O che non cambi nulla come dice il vecchio nonno? Film lucido, incalzante e duro è carico di umanità, di pietas per un popolo che non crede in nulla ed è morso dall’infelicità e dalla paura. Un Leone non sarebbe male.

Se il 1962 è storia passata, oggi la sofferenza dei minori sfruttati – 152 milioni nel mondo – è immensa. Il regista iraniano Majid Majidi narra in Khorshid la vicenda di Alì,  capo di una piccola banda di ragazzini, sfruttati dagli adulti, privi di istruzione, che cerca un tesoro sotto la scuola  in cui è riuscito ad entrare per poi dividerlo con un ricattatore. Il ragazzo è sveglio, determinato ed ingenuo: lavora giorno e notte, finchè rimane solo perché gli amici se  ne vanno e la scuola viene chiusa per mancanza di fondi, nonostante le proteste dei ragazzi. I piccoli attori sono straordinari per innocenza, furbizia, dolore e voglia di vivere. Il film è un grido alla libertà di esistere e di essere felici. La scena conclusiva con il pianto disperato di Alì, ingannato dagli adulti, è commovente. Riusciremo mai a vederlo in sala un film come questo?.

Ancora storie di donne. Non convince The Word to come -Il mondo che verrà- della regista Mona Fastvold. Due donne- siamo sul 1850 nella zona rurale sopra New York-, vivono un matrimonio infelice,  si scoprono e diventano amiche. Anzi, intime. Abigail (Katherine Waterston) e Tallie (Vanessa Kirby) trovano ogni modo per vedersi fino all’inevitabile separazione, tipica dei mèlo. I mariti sono o rigidi o grigi, come il bravo Casey Affleck dalla voce rauca. Una storia furba  di amore lesbico, oggi certo non più tabù, con inutili scene di sesso e molta superficie.

Non convince troppo nemmeno Pieces of woman – Pezzi di una donna – dell’ungherese Kornèl Mundruczò, che si apre con una sequenza lunghissima di un parto difficile, tanto che la bambina nasce e poi muore subito. La coppia di Boston, Martha e Sean, è annichilita. La donna è fatta a pezzi nell’intimo, letteralmente: la madre dura, il marito incerto, i parenti che premono per un processo all’ostetrica, non l’aiutano. Il cuore del film è la fatica di accettare la perdita di un figlio appena nato, lo strazio materno e la solitudine interiore. È difficile convivere con il dolore ed anche se Martha scagionerà l’ostetrica e avrà un’altra bambina – un finale consolatorio “facile” – chissà come sarà la vita. Felice, speriamo, in un film in cui- come in altri – domina l’universo femminile e gli uomini sono spesso al di sotto delle aspettative.

 

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons