La morte di Tiziana non è colpa del web

Il suicidio di una giovane donna della provincia di Napoli, messa alla gogna sui social network a causa di un video messo in rete e diventato virale, ci interroga sull'uso che facciamo dei nuovi strumenti tecnologici e sulle nostre responsabilità
Uno smartphone con Facebook

“Se c'è una cosa che internet non impara mai è che a volte l'unica cosa giusta da fare è tacere”. I social network in queste ore sono pieni di espressioni come questa, di accuse più o meno dirette al Web per la tragica fine di Tiziana, la donna che si è uccisa dopo che un suo video hard (condiviso per prima da lei stessa con alcuni amici) aveva fatto il giro dei telefonini prima di approdare su Internet, dove era stato ricondiviso, diventando purtroppo virale.

 

È necessario sgombrare il campo dall’idea che il web possa uccidere, che possa essere ritenuto il responsabile, oggi come ieri per altri casi simili, della morte di una persona schiacciata dal peso di una reputazione rovinata per sempre. Accusare Internet di uccidere una persona è come accusare un’automobile di aver procurato un incidente quando il conducente era in stato d’ebrezza.

 

Il web non è un universo parallelo in cui entriamo, è uno strumento che le persone usano per interagire con altre. Il web è una grande lente di ingrandimento e un amplificatore dei nostri pregi e dei nostri difetti, con “solo” una cassa di risonanza più ampia, in spazio e tempo, di quella, più circoscritta, che poteva forse avere un pettegolezzo fatto al bar. Il web lo fanno le persone che lo abitano, il web siamo noi, il web è solo la trasposizione, amplificata, dei comportamenti che già purtroppo ci contraddistinguono “offline”. Ed è di quelli che dobbiamo (pre)occuparci.

 

Il caso tragico di Tiziana deve farci riflette in modo consapevole su cosa vuol dire oggi “stare in Internet” e sull’evoluzione del concetto di privacy. Perché spesso l’euforia della novità allenta in noi la consapevolezza che in un determinato ambiente siano presenti, oltre agli indubbi benefìci, regole e rischi. Che sono tanto maggiori quanto più ampio è il raggio di diffusione che lo strumento può contribuire a raggiungere.

 

Se per tanto tempo abbiamo inteso la privacy come il diritto alla segretezza, oggi dobbiamo forse intenderla come il diritto a sapere da chi e come vengano gestiti i nostri dati, di sapere che essi non possano essere utilizzati senza il nostro consenso. E diventa allora fondamentale sapere che la nostra privacy non dipende soltanto più da noi.

 

Le impostazioni dei social network (vedi Facebook) e la sensazione di operare in “ambienti chiusi” (vedi WhatsApp) ci rassicurano sulla possibilità di trattenere le nostre cose per noi o solo per i nostri “amici”. Purtroppo non è così, perché con pochi gesti possiamo ad esempio creare l’istantanea dello schermo e ri-condividere con terzi conversazioni o messaggi, senza avere il consenso del nostro interlocutore.

 

Per questo il primo modo per proteggere la propria privacy è quello di non postare, dire, condividere, anche se spesso dimentichiamo che non siamo tenuti a rendere pubblico ogni attimo della nostra vita. Perché, e torniamo al tragico fatto di cronaca del napoletano, nel momento in cui condividiamo qualcosa lo stiamo affidando alla correttezza di innumerevoli altre persone, tra cui molti sconosciuti. E allora no, la morte di Tiziana non può essere colpa del web. Non è Internet, non è Facebook che ha condiviso il video della giovane. Sono state delle persone in carne ed ossa, consapevoli o meno dell’impatto che la loro azione poteva avere.

 

Internet e Facebook ne hanno fatto da cassa di risonanza, indubbiamente, ma questo è il loro mestiere e bisogna saperlo. Così come bisogna sapere che su Internet non abbiamo ancora il diritto di ripensare e tornare indietro dalle nostre azioni e tutto diventa indelebile, “per sempre”, nonostante si stiano percorrendo strade che permettano di richiedere l’oblio delle nostre tracce. Tutto è scolpito nella pietra e ogni nostra azione va a costruire la nostra reputazione online, che soprattutto per i più giovani, che vivono l’ambiente digitale in maniera totalitaria, diventa una cartina di tornasole fondamentale per la propria autostima.

 

Per questo, seguendo quella regola che ci invita a fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi, dovremmo imparare a sentirci responsabili dei dati altrui come dei nostri. Perché ciò che noi troviamo divertente e condividiamo a cuor leggero (cosa che facciamo sempre più spesso) potrebbe essere la rovina per qualcuno. Seppur agevolati da dispositivi sempre più a portata di mano che ci incitano all’immediatezza, dovremmo fermarci e domandarci se quella nostra azione può fare male a qualcuno. E quale impatto potrebbe avere per chi, anche non conosciuto, ci ha affidato, in qualche modo, sé stesso.

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