La morte di Sara, una sconfitta per tutti
Noi siamo quelli che piangiamo sul latte versato, sì perché da piangere c’è veramente. Solo che lo facciamo sempre “il giorno dopo”, rammaricandoci di non aver prevenuto e restando scandalizzati da tanto orrore. L’orrore c’è stato eccome, e ha lasciato attonito anche chi per lavoro è abituato a vedere il peggio.
Eppure sembrava la storia di due ragazzi qualunque, una ordinaria vicenda amorosa tra fidanzati che si lasciano, e se siamo tutti d’accordo che quello non era certo amore ma qualcosa di più simile ad un’ossessione, questa lettura non ci basta e non ci basta neanche catalogare come ennesimo femminicidio l’accaduto.
L’inferno è per almeno tre famiglie, ma sconfitti siamo un po’ tutti. Non solo per non essere riusciti ad intuire un possibile e tragico epilogo, ma perché siamo noi adulti a costruire lo scenario di vicende simili. Siamo noi i primi a non tollerare più nessuna forma di delusione, nessun ostacolo ai nostri progetti, nessuna imperfezione nei nostri corpi, nessun limite ai nostri desideri onnipotenti.
Nel 2003 il Presidente statunitense del Comitato di Bioetica già ci ammoniva che ormai siamo disposti ad amputare qualunque impedimento che intralci la nostra vita, malattie da curare, le asperità e i dispiaceri, mentre questi sono inseparabili dalla ricerca della felicità, e gioia, piacere e benessere sono gli indicatori di una vita appagata, e non prodotti da realizzare a qualunque costo.
La nostra soglia di tolleranza alla fatica è nel pieno del paradosso: il mio dolore mi è insopportabile, è solo ingiusto e non ne trovo un senso, perciò mi sento autorizzato a qualunque azione mi faccia sentire meglio nel più totale arbitrio di cui – sempre io – sono l’unico padrone. Il tuo dolore, invece, non mi crea compassione, anzi quasi non mi raggiunge, ho già abbastanza guai per conto mio che non posso pensare anche ai tuoi, e forse Sara poteva essere soccorsa da qualche passante, chissà, una leggerezza costata cara, che magari con una telefonata si poteva ovviare. Sono ipotesi, che però ci devono far pensare senza demagogie.
Rischiamo di ammalarci di un “vitalismo esuberante e prevaricatore”, espressione forte che ho letto altrove e che mi rimbomba in testa.
Dobbiamo darci tutti una calmata, rallentare in ogni senso: abbiamo bisogno di tornare a distinguere il bene dal male perché non tutto è possibile, e sono proprio i limiti a renderci più umani; abbiamo bisogno di costruire esistenze reali e non di sfidare arroganti la realtà alla ricerca del proibito; abbiamo bisogno di bellezza e di affetti buoni, stanchi della violenza in parole e atteggiamenti che ci propongono i media, abbiamo bisogno di sentimenti autentici, saper piangere per una sconfitta perché no? e saper brindare per una gioia inattesa, ubriacarci di sensazioni forti, infatti, ci fa svegliare ancor più vuoti e soli.
Questa è la terra che noi adulti vorremmo lasciare in eredità.