La misura del potere
Misura per misura, testo tra i più ardui e complessi, nonché contraddittori del canone shakespeariano, è centrato sul tema del potere e dell’arte del governo. Il Duca di una fantomatica Vienna, per osservare di nascosto i comportamenti dei suoi sostituti e ripulire la corruzione, si eclissa temporaneamente travestito da monaco, e cede il potere al puritano Angelo. Il vicario si rivelerà un ipocrita evidenziando così che spesso ciò che si biasima e si vorrebbe punire negli altri è compiuto da colui che lo condanna. Col ritorno del Duca viene restaurata una sorta di bizzarra giustizia, con un lieto fine amaro e ipocrita che dà ragione a Cesare Garboli – illustre traduttore scespiriano – quando asserisce che è il potere a scegliere lo stile della realtà. L’allestimento che ne fa Gabriele Lavia è una gigantesca e costosa macchina spettacolare. In preda ad una frenesia motoria (imponenti e scorrevoli le scene di Carmelo Giammello che diventano corte, aula di giustizia, prigione e postribolo), la sua regia, che propende per una chiave grottesca, spesso stordisce: dal livido balletto dark in apertura di sipario, che ci immerge in una bolgia infernale da discoteca; alle caricature da cabaret dei vari personaggi; ai chiassosi costumi; fino alle lusinghe del reality con la presa in diretta del processo degli svelamenti e degli inganni. A Lavia (Duca dall’eccessivo tono ironico) sembra interessare l’attualizzazione in senso ampio: dal tema della giustizia, allo sguardo comprensivo dell’autore sulle debolezze umane, sui cedimenti di un rigore morale inesorabilmente insidiato dalla morte. Ma non sortisce l’effetto di comunicarci tutto ciò, perché a prevalere è la grandiosità scenica che inghiotte le parole e ne attenua la forza.