La mia vita tra le bombe
Maha ha quarantacinque anni e lavora come segretaria in un’azienda commerciale. Nel suo tempo libero cerca, come può, di aiutare la sorella e il cognato, sollevandoli dalla piccole commissioni quotidiane, come andare a fare la spesa o a comperare il pane. Sono anziani e malati, mi spiega, e non riescono a farcela da soli. La sua vita va avanti come al solito. Dove il “solito” è fatto della consuetudine di questi ultimi sette anni di guerra in Siria.
Maha vive a Damasco, nel quartiere di Kassa’a, a maggioranza cristiana, che si trova nei pressi della zona occupata dai ribelli, che lei chiama “Damascus Rurals”. Abbiamo la stessa età, io e Maha, ma esistenze che non potrebbero essere più diverse. Mondi resi vicinissimi da una semplice chiamata via WhatsApp.
«Gli ultimi giorni sono stati più calmi…», racconta Maha «ma quando dico “calmi” non vuol dire che non ci siano state bombe, ce ne sono state, ma poche rispetto all’ultimo mese, che è stato veramente duro: quando una persona usciva di casa al mattino, non sapevamo se sarebbe rientrata, alla sera!».
Maha mi racconta il suo mondo, dove la sospensione e l’incertezza della guerra condizionano la sua vita e quella del suo popolo: «Il fatto è che non sappiamo dove e quando una bomba può cadere. Ieri sono andata a trovare un’amica e mentre tornavo, ad un certo punto, la gente ha cominciato a gridare: “Correte, correte! Le bombe, le bombe!”. E così, ho cominciato a correre, ma senza sapere dove andare per salvarmi, perché non sapevamo dove sarebbero cadute».
Maha mi racconta anche dell’aumento dei prezzi, oggi dieci volte più alti di quelli di prima della guerra; dei salari che, quando ci sono, sono rimasti invariati, della difficoltà nel reperire il pane; della paura di mandare a scuola i bambini, le vittime più numerose che, lungo la strada di ritorno a casa, diventano facili obiettivi dei ribelli. «Puoi credere – mi dice – che i miei pensieri, i ricordi precedenti a questi sette anni sono completamente cancellati? Nella nostra mente sono rimasti solo quelli legati alla guerra. Come se vivessimo in un’altra era».
Mi chiedo, in questa situazione, dopo tutto questo tempo vissuto dentro un conflitto, dove possa essere finita la speranza, se a Maha ne è rimasta un po’. Lei mi risponde che non l’ha mai persa, semplicemente perché non poteva concedersi di perderla: «Se ci fossimo abbandonati alla disperazione, sarebbe finito tutto. Intendo, da tutti i punti di vista: economicamente, fisicamente, moralmente. Dovevamo incoraggiarci. Per esempio, quando mi sentivo veramente giù, una mia amica, che ha un carattere tanto forte, mi incoraggiava, mi diceva: “Vedrai che presto questa guerra finirà e ricominceremo tutto daccapo”. Lo stesso facevo io, quando avevo a che fare con persone in crisi. Non permettevo che stessero giù di morale, anche se dentro di me sapevo che quello che stavo dicendo non era vero. Ma dovevo dirlo!».
Noto che il discorso di Maha è coniugato al passato, lasciando un vuoto su ciò che vive nel presente. Provo a chiederle di ciò che sente oggi. «Io continuo a…».
La pausa, il silenzio che sento di là, nel mondo di Maha, non serve per cercare le parole giuste in inglese, quelle che meglio possano descrivere il suo stato d’animo. Quando finalmente riesce ad ingoiare le lacrime, e a contenere l’emozione, la sua voce trema ma è solida: «Io continuo a sperare. Un’amica, qualche tempo fa, mi ha proposto di partire, di andare a stare da lei per un po’, ma non ho accettato. Non posso andar via. Perché la mia casa, la mia vita, le vie, i ricordi sono qui… Per me, io non ho mai pensato di andarmene. Qualche volta l’ho desiderato per sentirmi al sicuro, perché la mia mamma è morta un anno fa e ora sono sola».
Maha ha ancora un posto di lavoro e uno stipendio, ma non sa per quanto tempo durerà. «La nostra azienda, come molte altre, si è fermata a causa della guerra, ma il nostro capo lascia aperto l’ufficio e ci paga, solo che non lavoriamo, perché non ci sono contratti con l’estero. Lui ci tiene qui perché non vuole buttarci per la strada, ma non so quanto potrà durare ancora questa situazione, da un giorno all’altro potrebbe arrivare dicendo: “Scusatemi, ma devo chiudere l’ufficio, non ci sono più entrate”».
Provo un senso di impotenza: possibile che non si possa proprio far niente? Che dobbiamo rassegnarci all’idea che alle porte della nostra Europa un popolo sia costretto a vivere in guerra senza poterlo impedire, senza potergli far dono della pace?
«Io so che la nostra sorte è legata ad accordi e negoziati tra paesi più grandi di noi. Ma nel mio cuore io sento che è importante scrivere. Scrivere la verità di quello che stiamo vivendo qui, far capire a tutti la nostra situazione in tutti i paesi del mondo! Scrivere può fare la differenza, la parola scritta è potente – incalza Maha -, insieme alla preghiera, perché io credo che la preghiera…». «Aiuti» propongo io.
«… Che la preghiera faccia miracoli!» completa invece lei. Adesso, il mondo di Maha è anche il mio. Non possiamo rassegnarci alla guerra, non possiamo soltanto scriverne.