La mia mappa per l’italia

Il regista Pupi Avati, il cardinale di Perugia Gualtiero Bassetti e l’imprenditore Marco Cabassi a LoppianoLab scommettono su cultura, relazioni e lavoro per il presente del Paese. Tratto dal n. 18/2014 di Città Nuova
Marco e Matteo Cabassi

LoppianoLab, il laboratorio civile per l’Italia, nella sua quarta edizione consolida un metodo che negli anni è risultato vincente e soprattutto convincente, visti i numeri costantemente in crescita dei partecipanti. La società civile cerca un luogo di dialogo e di conoscenza sia delle fragilità del nostro Paese sia dei suoi tanti segnali di rinascita e di eccellenza che non sono lucciole, ma stelle che orientano il cambiamento. Vuole ragionare, discutere, apportare un suo contributo a quei livelli decisionali e operativi che in questi anni più che gettare ponti con il territorio, hanno approfondito fossati e ritirato in tempi difficili il ponte levatoio.

La gente di LoppianoLab non cede al qualunquismo della mera rinuncia e al fatalismo che serra le porte al nuovo: ogni anno dopo queste giornate, si torna nelle città con un progetto, vedi SlotMob; si intrecciano reti tra generazioni (come i cantieri su legalità e dialogo interreligioso), tra imprenditori e studiosi (un esempio è la Scuola di economia civile), tra governanti e governati (i laboratori tra gruppi parlamentari ne sono una prova) e poi ancora tra giornalisti e lettori; tra artisti e pubblico e tra regioni che scelgono di accorciare le distanze geografiche e di Pil con progetti condivisi.

 

Nell’edizione 2014 di LoppianoLab convergono anche le sospensioni e le criticità che gli organizzatori, cioè il polo Bonfanti, il gruppo editoriale Città Nuova, l‘Istituto universitario Sophia e Loppiano, stanno vivendo in termini di occupazione, calo dei ricavi, costi di gestione, preoccupazione per il futuro: lo stesso stato d’animo di tanti in Italia. Eppure non ci si ferma e non si abbattono i pilastri indispensabili alla rinascita e su cui si vogliono porre resistenti fondamenta: lavoro, cultura, relazioni declinate però nell’ottica del “noi”, del bene per tutti, dell’innovazione dal basso. E lo si fa ancora con i laboratori aperti su famiglia, politica, economia e impresa, intercultura e migrazioni; e lo si fa in dialogo con uomini, donne e giovani noti ma anche con “non” noti: denominatore comune è il loro apporto al tessuto vitale del nostro Paese.

Città Nuova ha raggiunto tre degli ospiti del pomeriggio di sabato 4 ottobre: ciascuno dalla sua prospettiva ha disegnato un pezzetto di mappa dell’Italia.

 

L’impresa che fa cultura

 

Marco Cabassi, 53 anni, milanese, immobiliarista di nascita e poi per professione, dopo un periodo come inviato Onu per i diritti umani in Indocina, è un vortice di parole e di entusiasmo appena apri il capitolo sui progetti della sua holding. Mi ripete più volte, durante la nostra intervista, che Matteo (suo fratello) avrebbe ben altro da aggiungere e precisare sulla storia della loro impresa e sulle scelte operate nel tempo per salvare dalla quasi bancarotta le 200 aziende ereditate dal padre e che da zavorra sono invece diventate poli di cultura e società sane quotate in borsa e gestite a 16 mani perché dieci anni fa solo quattro degli otto fratelli hanno continuato l’attività in campo immobiliare mentre la mamma e i restanti quattro si sono dedicati ad altro. Il nome dei Cabassi è legato a Milanofiori, uno dei più grandi comparti dello sviluppo urbanistico in Europa, al forum di Assago, ai terreni dell’Expo, alla prima azienda di panificazione agricola, luoghi che hanno fatto e fanno la storia del capoluogo lombardo. Anche il Leoncavallo, il contestato centro culturale milanese aveva occupato uno degli immobili di loro proprietà, ma è diventato un ponte di dialogo con la società civile, tanto che a luglio è stato ceduto alla città.

 

La parola immobiliarista in Italia è spesso sinonimo di cementificazione. Qual è il vostro rapporto con il territorio?

«A ragione sono mal visti perché spesso sostituiscono alla natura il cemento, piazzano qualcosa di invasivo, lo vendono e fanno soldi, è uno schema diverso da quello del nostro papà Pino. Se dobbiamo costruire, cerchiamo di essere rispettosi del contesto, degli accessi, e se invece da reinventare ripartiamo dalla storia dell’immobile da ciò che ha espresso e che può esprimere.

«Un’azienda immobiliare è legata al territorio e non può delocalizzare come accade per il manifatturiero e quindi se una sede è fatta male, è fatta male ed è un pessimo investimento, ma resta comunque l’obbligo di relazionarsi con il contesto in cui è posta. Per noi, poi, la funzione estetica è importante: papà ha chiamato grandi architetti per realizzare i suoi immobili, ma non basta. Lo stesso impegno ci vuole per la funzionalità e l’accessibilità, per cui vanno realizzate anche le infrastrutture che portano a questo luogo. La dimensione relazionale con il territorio è il nostro modo di fare sviluppo immobiliare».

 

Sappiamo che in azienda suo fratello Matteo sceglie i contenitori, cioè gli immobili, lei invece i contenuti, cioè cosa metterci dentro. Come funziona questa selezione?

 «A volte sono i contenuti che richiedono una forma particolare, talvolta invece sono i contenitori che richiedono una nuova funzione. E poi sono i fatti a guidarci. Quando papà ad esempio stava costruendo Milanofiori, è crollato il palazzetto dello sport e mentre nessuno si decideva sulla costruzione, lui ha scelto di costruirlo, sapendo che era un’opera difficile e che anche la gestione sarebbe stata complessa e magari non redditizia. Il forum di Assago è nato quindi dall’esigenza di un territorio. Un’altra volta è venuto a chiederci uno spazio un signore che aveva fondato un’accademia d’arte. Era messo molto male e nel tempo la sua realtà aveva perso vigore. Noi l’abbiamo trasferito in un luogo bello, un edificio storico molto particolare, abbiamo comprato anche l’accademia che in cinque anni è diventata la più grande accademia privata italiana. Ora l’abbiamo venduta ad un gruppo americano e conta diverse migliaia di studenti: abbiamo assistito ad un processo di crescita di un’azienda all’interno di un edificio».

 

Un caso emblematico è anche l’Open Care…

«Per noi è un esempio di dialogo con il territorio. La Frigoriferi Milano era una fabbrica del ghiaccio, diventata poi magazzino per generi alimentari. I capannoni sono stati adattati per la produzione di pellicce e tappeti. Quando mio padre li ha rilevati, vi ha aggiunto un caveau per il ricovero di quadri e preziosi tappeti. Negli anni Novanta c’è stato il declino delle pellicce e noi ci troviamo questo edificio molto bello e questi quadri e tappeti in deposito e allora ci viene in mente di aggiungere un servizio a questi beni che conserviamo. Diamo vita così ad un’azienda unica nel suo genere: l’Opencare, uno spazio dove offriamo servizi alle opere d’arte dalla conservazione all’archiviazione, alla logistica, fino alla valorizzazione e al restauro».

 

C’è una ricetta Cabassi per l’Italia del 2014?

«Non credo ci sia una ricetta che valga per altre realtà. Noi abbiamo quella che applichiamo alla nostra: costruiamo valori e vogliamo che i valori siano al centro delle nostre attività imprenditoriali, consapevoli che non si scelgono una volta per tutte ma vanno costantemente dichiarati, riconosciuti, rispettati, riscelti e reinterpretati».

 

La creatività presenza del sacro

 

Pupi Avati sta girando a Lampedusa un film sui migranti e ce lo anticipa: una donna che non ha figli ottiene in affidamento un bimbo siriano, ma scopre che ha dei fratelli in Germania e quindi deve riportarlo alla vera famiglia. «L’ho fatto per restituire identità e carisma a questi esseri umani che arrivano su dei barconi terribili, nel totale disinteresse di tutti». Il regista scava dentro uno dei drammi che l’esodo via mare dei profughi deposita sulle nostre coste e lo fa con passione instancabile. Già una settimana dopo il premio al Festival di Montreal alla sceneggiatura del suo ultimo film, Il ragazzo d’oro, lo ritroviamo dietro una macchina da presa.

 

Il cinema è un’espressione creativa della cultura italiana ma non sempre è una direttiva di investimento. Cosa ne pensa?

«Insegnare la comunicazione di sé è l’elemento centrale nella formazione culturale e creativa di un essere umano e di un Paese e poi da qui trovare lo strumento che esprime questa crescita, l’involuzione, l’evoluzione, il cambiamento e questo può essere il cinema o la scuola, la chiesa, la politica, la professione. Purtroppo le persone vengono educate all’omologazione, ad essere spettatori passivi dell’esistenza e quindi ad assumere comportamenti rassicuranti nella loro omologazione, abdicando alla propria volontà e dimenticando la parabola evangelica dei talenti».

 

In che senso i talenti evangelici fanno cultura?

«Purtroppo questo tipo di lezione non viene impartita e purtroppo le persone vengono educate all’omologazione e ad essere spettatori passivi nell’abdicazione totale della propria volontà, questa è la lezione evangelica del talento ed è il lascito della parabola dei talenti.

«Ogni essere umano ha una sua identità irripetibile che se ne andrà con sé stesso, ogni essere umano è il prescelto, ha dei talenti unici. Da ragazzino avrei voluto incontrare qualcuno che mi avesse detto che il mio dovere era quello di cercare il mio talento, la mia identità e lo strumento attraverso il quale esprimere questi doni e non rassegnarmi finché non l’avessi trovato. Per me identità è sinonimo di vocazione e di talento. In questo modo ogni persona diventa molto più preziosa, molto più apprezzabile, molto più interessante di quanto non lo sia nell’oggi dove l’altro è qualcuno di cui diffidare».

Parliamo di cultura e lei tira fuori il sacro, un terreno su cui gli italiani non si muovono a proprio agio…

«L’italiano di oggi non ha confidenza con il sacro e i giovani hanno addirittura diffidenza ed entrambi sono distanti anni luce dal grande mistero che ci accompagna in tutta la nostra vicenda umana. Anche la creatività è un grande mistero e lo dico con certezza avendo vissuto con persone estremamente creative, come Federico Fellini. Conoscendolo e parlandogli, nulla ti faceva supporre quello che in certi film, in certe sequenze è riuscito misteriosamente a trasmettere poiché si era messo in una condizione di ascolto e ricezione di qualchecosa che arrivava e lo pervadeva ma che era qualcosa di ineffabile. Nella pellicola sull’estate di Mozart a Bologna, allontanava la macchina da presa quando il musicista componeva, perché aveva pudore nei confronti di questo momento sacro perché non è mai rappresentabile, come l’amore. Tutte le scene dei film che provano a raccontarlo, anche quelle di sesso, sono inverosimili perché mancano della sacralità che le rende uniche. La creatività ha molto a che fare con l’attesa, con la preghiera, con il confidare nel sacro».

In un’ideale mappa per l’Italia cosa ritiene indispensabile?

«I talenti, l’altro e la famiglia perché è dalla famiglia che vengono fuori gli italiani buoni e cattivi. Oggi la raccontiamo nei modi più dissuasivi possibili, in modo turbolento e trasgressivo. Io mi ostino a raccontarla, piaccia o meno, come legame che ti impegna, che resiste, che offre un contesto umano positivo senza relativismi morali che ci assolvano dall’impegno che ogni ruolo comporta, soprattutto quello di genitori».

Il Paese riparte dalle persone

Incrociarsi con il cardinale di Perugia Gualtiero Bassetti non è facile perché come ammette lui stesso, dopo la nomina di Francesco sono aumentati gli impegni e già prima, più che la Curia lo si trovava spesso sulla strada, con gli operai delle aziende in crisi, con i bambini delle scuole e negli ospedali: il rapporto con le persone non è cambiato neppure adesso. Lo spirito che lo guida, come ripete, è quello appreso dal Cardinal Benelli: «Occorre servire la Chiesa e non servirsi di essa».

Quali laboratori sente urgenti per la Chiesa in Italia?

«Prima di tutto le opere. Troppo spesso in questi anni abbiamo perso tempo in chiacchiere infruttuose. Adesso, vista anche la difficilissima situazione sociale economica è il momento dei fatti concreti. Non è accettabile, per esempio, assistere in silenzio allo stillicidio di morti che continuamente avviene sul Mediterraneo. E allo stesso modo non è possibile accettare l’idea che molti nuclei familiari non hanno più le risorse per comprare i libri di scuola ai propri figli!

Bisogna ripartire dalle scuole e dalle famiglie. Occorre aiutare concretamente questi nuclei familiari in difficoltà. C’è poi il bisogno che la scuola torni a fare la scuola e cioè il luogo di studio per eccellenza – senza avventurarsi in chissà quale moda educativa del momento – che sappia insegnare a rispettare l’altro e si trasformi in un motore primario per lo sviluppo morale, intellettuale ed economico».

Come vede i laici cristiani? Timorosi e in silenziosa ritirata o in frontiera senza tanti clamori?

«Questo è un momento di cambiamenti epocali, quindi è abbastanza normale che molti laici cristiani siano un po’ spaesati. Non bisogna avere paura. E del resto non mi sembra che abbiano paura tutti quei giovani e quegli adulti che sono quotidianamente impegnati nelle associazioni o nei movimenti ecclesiali. Tutti i laici cristiani sono chiamati a fare parte del corpo mistico di Cristo. Ognuno col proprio carisma. Tutti con i piedi per terra ma con lo sguardo in alto verso il Cielo».

Quale mappa traccerebbe il cardinal Bassetti per il Paese?

«Il mio ruolo rimane sempre quello del pastore e non ho certo la pretesa di avere in tasca la ricetta per far uscire il nostro Paese da questo stato di prostrazione. Approfondirò questo tema a LoppianoLab, ma non mi piace il termine “mappa” perché ricorda l’agire politico e non è il mio campo. Da questa fase di stagnazione ne dobbiamo uscire tutti insieme senza dimenticarci di nessuno. Anzi partendo dagli ultimi, dagli scarti della società, dai più poveri, da quelle persone che apparentemente non contano nulla ma che sono invece grandi agli occhi di Dio. Bisogna collaborare con tutti»

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