La mia collega Silvia

Un periodo “speciale” di scuola assieme. Pierita Folgheraiter e la sua amicizia con Chiara Lubich.
Piera Folgheralter

Il trascorrere del tempo non ha affievolito in Piera Folgheraiter, ormai novantenne, certi ricordi, anzi! Si era alla fine del mese di settembre del 1940, e mancavano pochi giorni all’inizio delle lezioni. Non erano, quelli, tempi felici: nel giugno di quell’anno infatti l’Italia di Mussolini era entrata in guerra a fianco della Germania di Hitler e, sebbene la propaganda del regime volesse convincere che tutto si sarebbe risolto in brevissimo tempo, non passava giorno che in una famiglia o nell’altra non arrivasse la famosa cartolina per la chiamata alle armi. E puntualmente si ripeteva la medesima scena alla stazione: tra lacrime, abbracci, parole di incoraggiamento, si salutavano i figli, i fratelli, gli amici e i coetanei che partivano per il fronte.

«Avevamo vent’anni, io e Silvia (non ancora Chiara) Lubich, quando – prende a raccontare Piera – ottenemmo un posto di insegnanti a Cognola, nel collegio dell’Opera Serafica dei cappuccini di Trento. I padri cercavano, ricordo, una maestra seria, giovane e cattolica e alla fine la trovarono: la Lubich. Io ne fui felicissima: ci eravamo diplomate tutt’e due all’Istituto magistrale Rosmini, avevamo insieme frequentato la sezione studenti di Azione cattolica, ma mai avrei immaginato quale beneficio mi avrebbe portato quell’anno di insegnamento accanto a lei». 

Se infatti i fratelli partivano, chi rimaneva doveva rimboccarsi le maniche, soprattutto quando veniva meno nelle famiglie il sostegno economico più valido. «Se da una parte potevo ritenermi fortunata perché, fresca di diploma, avevo trovato un posto di insegnamento e vicino a casa, dall’altra mi sentivo impreparata ad assolvere il mio incarico in quel severo collegio che ospitava un’ottantina di bambini e ragazzi dai 4 ai 15 anni, orfani o provenienti da famiglie in difficoltà».

Le classi erano cinque, più l’asilo. Tre erano le maestre che, dopo aver svolto le lezioni, si avvicendavano durante i compiti pomeridiani dei ragazzi e in refettorio a pranzo e a cena. La giornata di lavoro era dunque impegnativa, e si protraeva dalle 7 alle 20 dal lunedì al sabato. Il giovedì era vacanza.

Settant’anni fa, gli strumenti didattici a disposizione dei maestri non erano certo quelli di oggi: benché l’allora ministro Bottai avesse reso l’istruzione elementare obbligatoria, la scuola restava pur sempre quella del leggere, scrivere e far di conto. «L’apprendimento della lettura e della scrittura – ricorda la Folgheraiter – era quanto mai macchinoso: era in uso il metodo alfabetico, e solo alla fine dell’anno scolastico i bambini imparavano a leggere e a scrivere. Ma quanta fatica! Quante macchie d’inchiostro nel quaderno e, soprattutto, quanta noia! I castighi e le punizioni corporali erano tra i più normali ed efficaci espedienti per mantenere la disciplina. La sera il padre responsabile del collegio distribuiva i castighi adoperando anche la cinghia e noi maestre dovevamo assistere, in silenzio. Ma uscivamo col “magone” in cuore».  

Quell’anno, a Pierita (diminutivo con cui Piera era confidenzialmente chiamata da Chiara) venne assegnata la prima classe, mentre la Lubich ebbe la terza e la quarta. «Lei seguiva i ragazzi più grandi, che avevano quasi la nostra età, ma ci sapeva fare. Inoltre, non si limitava soltanto a compiere il proprio lavoro, che già era abbastanza. Sin dall’inizio mi fu vicina con tanti preziosi suggerimenti, sempre pronta, qualunque cosa le chiedessi, senza mai farmelo pesare: anzi! La vedevo gran lavoratrice, precisa e attenta, sempre serena, ottimista. Eppure sapevo che la sua famiglia si trovava in gravi difficoltà economiche, anche se di queste lei non mi parlò mai».

 

Silvia era molto brava in disegno. «Fu lei – prosegue con grande calore – a proporsi per disegnare i cartelloni che adoperavo per le lezioni, tanto che non ho voluto mai separarmene, come non ho strappato i numerosi biglietti che ci scambiammo durante quell’anno».

Per quanto nutrisse una profonda stima ed affetto per la sua collega ed amica, Pierita allora non si rendeva conto che Silvia, pur giovanissima, aveva elaborato un metodo innovativo per l’insegnamento della lettura e della scrittura. Lei non partiva dalle lettere (anzi, dalle “aste”) per comporre poi le sillabe e le parole, secondo il metodo allora in uso, ma dai loro “suoni”, secondo un sistema che nelle scuole italiane sarebbe stato adottato almeno quindici, vent’anni più tardi. Il risultato era che i bambini leggevano e scrivevano speditamente nel giro di tre mesi: un vero record!

Una collaborazione che – Pierita ci tiene a precisarlo –fu sempre del tutto spontanea. «Se non ero capace di fare qualcosa, chiedevo a lei e lei mi veniva incontro su tutto. Volle fare per me, ad esempio, dei meravigliosi disegni col carboncino o dipinti con l’acquarello per illustrare tutti i numeri dell’1 al 10 e altrettanto per introdurre ogni lettera dell’alfabeto. Tante volte mi pare ancora di essere là; ho abbastanza vivi certi ricordi. Silvia era amorevole, sempre armoniosa e ordinata anche nel vestire. Si stava bene in sua compagnia. Anche se io non ero così brava come lei, però facevo quel poco che potevo… Non saprei dire di più… Poi, finito quell’anno scolastico, io andai via, e Silvia rimase ancora in quella scuola per tre anni. Ma a quel punto iniziava un’altra storia: quella del Movimento dei focolari».

 

Cara Silvia, cara Pierita

 

Alcuni dei messaggi inediti che Piera Folgheraiter e Silvia si scambiarono durante il periodo a Cognola. 

 

«Cara Silvia, sono avvilita perché non sono riuscita a far capire la distinzione tra sillaba o suono delle sillabe, p. es. ho detto: fatemi una sillaba e mi si diceva: r o b. Come devo fare? Ciao, bacioni. Grazie. Pierita».

 

«Carissima Pierita,     non avvilirti per cose simili. Anzitutto non è proprio necessario che i bambini sappiano che cosa sono le sillabe, ma basta che essi sappiano pronunciarle. Fai così. Di’ una parola:   casa. E chiedi: quante volte apro la bocca? 2 volte. Di’ un’altra parola: casone. Quante volte? 3. Cosa dici quando l’apri la prima volta?     ca. Falla pronunciare bene e poi separa tu:            c – a.    Qui c’è una lettera che conoscete: a. Vediamo un’altra “apertura” di bocca in cui c’è a:       pa = p – a; da = d – a;         fa = f – a   ecc. Bacioni. Silvia».

 

«Cara Silvia, per favore arrivi, con tuo comodo, a finire il 7? Se adoperi i colori, qui ci sono, altrimenti sarà per la prossima settimana.         Grazie mille e scusami. Aff.ma Pierita».

 

«Pierita, arrivo altroché!         Avevo iniziato i 7 vasetti che non mi soddisfecero. Ed allora ne ho iniziato un altro. Vedrai.            Adoprerei un bell’azzurro cielo, ce l’hai? Tra questi non ne trovo. Dimmi anche se va bene il 7 scritto in nero. Bacioni. Silvia».

 

«21 dicembre 1940 – ore 11,10. Carissima Pierita, ti mando l’e. Ti piace? Alle 12 ti ritoccherò l’e; l’ho dovuto fare in fretta.            Ora ho un’ora di studio. Alle 11 ½ vorrei raccontarti un po’ quelle lezioni del corso per non rimandare tutto a tempo… indebito. Silvia».

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