La mia causa più difficile

Appena entrato in ufficio, anche quella mattina mi dispongo ad esaminare le svariate decine di pratiche che la sezione del tribunale di cui sono responsabile riesce a smaltire ogni giorno, non senza il prezioso apporto di Rosi, la mia segretaria. Un’operazione complessa ed impegnativa, che occupa buona parte della mia giornata lavorativa, nel rammarico di avere ben poco tempo da dedicare ad un confronto franco e diretto con gli avvocati difensori. Cerco di rimediare, tenendo ben presente che dietro ogni fascicolo c’è una persona, anzi più persone i cui interessi sono in conflitto, in attesa di una sentenza secondo giustizia. Entra, dunque, Rosi. Mi porge un documento, dicendomi: “Giudice, legga con calma, poi le dirò”. Si tratta di una denuncia, con accuse pesanti e persino volgari nei miei confronti. Ci sono abituato ad essere accusato di “abuso di potere”: solo perché, come è mio preciso compito, rimando indietro le pratiche processuali che ritengo incomplete, o invito gli avvocati che le hanno istruite a tenere conto di un determinato articolo del codice. Ma, questa volta, il fatto mi indigna particolarmente, soprattutto per il suo tono offensivo, che ritengo indegno di un confronto civile tra avvocati. Frugo nella mia memoria, ma non riesco a dare un volto a quella firma: ciò mi pesa maggiormente, perché sarà difficile trovare il modo di un chiarimento. Mi dispongo per ciò ad applicare le sanzioni che mi sembrano opportune. Scelgo quella più leggera, l’ammonizione, sperando che l’autore della denuncia si renda conto della gravità del suo atto. Il provvedimento disciplinare ottiene l’effetto contrario: raddoppia le sue critiche, senza tralasciare nessuna occasione per nuocermi. E quando tutte le accuse nei miei confronti cadono, mi trovo spesso a pensare al mio “nemico”, a cui non riesco a dare un volto. Passano tre anni. Tutto sembra dimenticato. Anzi, è cresciuta la stima verso di me, tanto che vengo scelto per presiedere una sezione per l’esame del progetto di riforma del nuovo codice. Un compito di paziente mediazione, che talvolta si infrange contro barriere ideologiche che sembrano insormontabili, o pareri che appaiono inconciliabili. Sta per iniziare un giorno la seduta per la revisione del codice. Entra Rosi per consegnarmi un documento e, come spaventata, mi fa cenno di uscire un attimo dalla stanza. “Sa chi c’è?”. Capisco subito a chi si riferisce. Nell’aula è presente proprio lui, l’autore della denuncia. Chiudo un attimo gli occhi, implorando un aiuto dal Cielo per quell’incontro. Chiedo l’impossibile: la piena riconciliazione. Mi rendo ben presto conto che il tipo è da prendere con le pinze: niente gli va bene, tutto l’annoia. Non mi lascio disarmare da questo suo comportamento, a dir poco eccentrico, con cui si è cacciato da solo all’angolo del ring. Mi sarebbe facile, allora, cogliere la palma della mia vittoria, sottolineare davanti ai colleghi le incongruenze del suo comportamento. Ma non lo faccio. Gli incontri proseguono, tra alti e bassi. Un giorno, contrariato, si alza di scatto e va via sbattendo la porta. Più tardi, quando lo raggiungo nel suo studio, si mostra sorpreso. Tuttavia, continua a recriminare su tutto ciò che è stato. L’ascolto, ed alla fine gli propongo di darmi una mano, di affiancarmi nella conduzione del gruppo. Sarà per me una fatica doppia, ma mi pare l’unica soluzione possibile: non farlo sarebbe spezzare il debole filo che ancora lo lega al corpo dei colleghi. Come ricompensa, mi risponde male, rinfacciandomi che voglio solo imbrogliarlo. Sconsolato, torno a casa. Mi sfogo con Jorge, un amico. “Non avevi detto che volevi vedere in lui solo un fratello?”, mi sento rispondere. Mi sento sostenuto nel mio proposito, e raddoppio le mie attenzioni nei suoi confronti: valorizzo i suoi lati positivi, cerco di attenuare quelli negativi” E così vado scoprendo che in quella persona c’è una sete di giustizia incontestabile, che però non riesce ad esprimere adeguatamente, ma che tuttavia è sincera. Lentamente, impercettibilmente, un tenue spiraglio si va tuttavia aprendo. Un giorno, la discussione su un articolo si protrae sino a tardi. Si fa l’una di notte, ed io sono particolarmente stanco. “Ti accompagno a casa”, mi dice. Lo guardo sorpreso: è il suo primo gesto di cortesia. In auto, il sottofondo musicale di una canzone ci aiuta a staccare la spina. Ascoltiamo in silenzio, lasciandoci trasportare dalla melodia. Ci sentiamo compenetrare dal ritornello, che recita: “Al di là della porta c’è la pace, ne sono certo, non ci sarà più pianto in Cielo. Mi prenderai per mano se ti vedo in Cielo? Mi aiuterai a rialzarmi se ti vedo in Cielo?”. Noto in lui qualcosa di nuovo, di diverso. Mi guarda, e commenta: “Allora, insieme prepareremo un buon codice di procedimento”. Inizia così una nuova fase nella conduzione dei nostri lavori di gruppo. Collabora di più, anche se di tanto in tanto bisogna fare i conti con i suoi improvvisi scatti d’ira. Riusciamo ad affrontare nuovi argomenti, e lui man mano riesce a tenere conto dei punti di vista degli altri colleghi. Si infervora, sempre col suo stile impetuoso, ma senza rompere con gli altri. I risultati finali del nostro lavoro lasciano tutti soddisfatti, ed io resto sorpreso per quanto questo difficile rapporto mi abbia aiutato a riformulare tanti miei punti di vista. Di sicuro ho imparato molto in tutto questo tempo. Le nostre conversazioni, ormai posso definirle tali, sono andate avanti, toccando non di rado argomenti e riflessioni che di solito avvengono tra amici. Scopro che, una volta, ha preso le mie difese in mia assenza. Come, del resto, è capitato a me di fare altrettanto. Sino a che, un giorno, vengo a sapere che un infarto se l’è portato via d’improvviso. Il mio dolore è immenso: solo allora mi rendo conto di quanto profondo sia stato il nuovo legame di amicizia che ci ha unito. Ora, ricordando questa vicenda, mi tornano in mente i versi della canzone ascoltata insieme in macchina” Chissà che io non mi sia guadagnato un fratello che ora mi dà una mano da lassù?

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