La mente inquieta

Quando la malattia mentale bussa improvvisa alla porta. Un marito racconta.
Immagine simbolica

Ero un marito poco presente a casa: il mio lavoro comportava spesso assenze prolungate e facevo orari assurdi. Quando sono arrivati i figli, mia moglie lavorava come turnista, per cui la gestione della famiglia per lei non era facile. Ad un certo punto, però, ha ottenuto una specie di pensione baby e ha lasciato il lavoro. I ragazzi avevano allora 5 e 10 anni.
Tutto sembrava rasserenato e più gestibile, invece proprio allora cominciai a notare qualche cambiamento in lei: difficoltà di comunicazione, freddezza, lunghi silenzi, peggioramento della nostra vita affettiva con un suo allontanamento da me. Finché pensai che il nostro destino fosse come quello di tante coppie che non hanno più niente da dirsi.
Mi colpevolizzavo per la mia poca presenza a casa, cercavo di parlarle, ma ci sfuggivamo: in questi casi si innescano strani meccanismi psicologici. Soprattutto non riuscivo a capirla, le chiedevo: «Cosa stai pensando?», ma lei non rispondeva. Una totale incomunicabilità.

Sulle amicizie o i familiari non potevamo contare. Dopo un anno, ero ormai convinto che la cosa migliore fosse prendere atto del fallimento del nostro matrimonio e separarci. Finché un giorno mi disse: «Dobbiamo parlare». Iniziò un discorso che, mi resi conto, era delirante, con elementi di tipo persecutorio da parte della gente del quartiere. Tutto era iniziato da un banale diverbio con la madre di un compagno di scuola di nostro figlio, un fatto insignificante, ma per lei devastante. Si sentiva minacciata, in una situazione senza uscita. Rimasi stupefatto: «Stai interpretando in modo sbagliato gli avvenimenti, le cose che pensi non sono reali». La sua reazione fu molto negativa; secondo lei non volevo comprendere la situazione.
Cercai di convincerla ad andare da un medico, ma rispondeva che non era pazza. Dopo qualche tempo ci rivolgemmo ad uno psichiatra. L’obiettivo delle sedute, con me presente, era convincerla che le fantasie erano il prodotto di alterazioni elettrochimiche del cervello, da risolvere ricorrendo ai farmaci. Dopo molte insistenze cominciò ad assumere medicine.
 
Nel frattempo mi rendevo conto di essere di fronte ad una malattia di cui non sapevo nulla, lei era diversa dalla persona che avevo sposato, i figli soffrivano e il tunnel sembrava senza uscita.
Andammo anche da uno psicanalista, senza però abbandonare i farmaci, quindi le due terapie, analitica e farmacologica, procedevano in parallelo. Lo psicanalista presto si rese conto che c’era un nucleo psicotico intrattabile con la terapia, per cui scoraggiò mia moglie dal continuare. Lei a sua volta era insoddisfatta dello psichiatra, per cui ne cercammo altri. Scoprii, con stupore e sdegno, un incredibile mondo di ciarlatani che approfittano di queste situazioni. Si susseguirono delusioni a raffica. In più lei ingrassava, per cui andò invano in vari centri dietetici pieni di profittatori.
Dal punto di vista economico furono anni pesanti, passavamo da uno psichiatra all’altro, ma erano solo prescrittori di farmaci per tenere sotto controllo i fenomeni più forti (acuzie). Decisi alla fine di studiare il trattato di psichiatria usato da mio figlio all’università, per comprendere meglio la situazione e poter discutere la scelta della terapia farmacologica.
Mi informai sulle controindicazioni dei vari farmaci, tipo ingrassamento, movimenti a scatti, impulso irrefrenabile a muoversi. Lei era contenta di vedermi impegnato nel sostenerla, voleva guarire, anche se riteneva reali i suoi deliri. Alla fine ci rivolgemmo alla Asl, per ridurre le spese e cercare un riferimento stabile.
Trovammo una brava psichiatra, impegnata nel sociale. Era convinta che la cosa migliore fosse la socializzazione, per cui mia moglie conobbe altre persone che vivevano problematiche analoghe e la cosa le giovò. Si susseguivano periodi (anche sei mesi) di relativa attenuazione della malattia (magari per un farmaco più efficace) e periodi più gravi, in cui cambiava aspetto, piangeva, non voleva vedere nessuno, stava sempre a letto, trascurava la casa.
 
Per me quello era il periodo di maggiore impegno al lavoro, ero da poco diventato dirigente. Ho avuto più volte la tentazione di andarmene, possibilmente portandomi i figli, in un vagheggiare confuso di opzioni possibili. Sentivo il peso di una situazione senza uscita. Mi ha fatto rimanere l’amore per lei e, soprattutto per i figli, che hanno subito un impatto indelebile dalla situazione, con modifica del carattere, soprattutto il più piccolo, molto fragile.
Poi la situazione si aggravò e per la prima volta dovetti ricoverarla per un mese. Questo da una parte faceva respirare la famiglia, dall’altra tutte le incombenze ricadevano su di me. Trasformai allora il mio rapporto di lavoro da dirigente a consulente, per avere maggiore flessibilità nel gestire il mio tempo.
Una scelta dolorosa dal punto di vista professionale, ma scoprii di avere dentro una positività che avevo sottovalutato: ero capace di affrontare la situazione in un rapporto quasi di complicità con i figli, cercavo di far sentire mia moglie la persona più importante della mia vita. Una spinta importante mi venne anche dagli amici focolarini.
Andavo tutti i giorni a trovarla in clinica; purtroppo durante i ricoveri danno solo dosi massicce di farmaci ai pazienti per tenerli buoni. Il problema è che nelle malattie mentali è difficile definire il male oscuro di cui soffre una persona. Per di più ogni persona risponde in modo diverso ai farmaci.
 
Poi una notte, a casa, lei tentò di suicidarsi, con una forte dose di pasticche che aveva accumulato di nascosto. Dopo il nuovo ricovero, venne seguita da una dottoressa che prese a cuore il suo caso, suggerendomi una terapia a base di scariche elettriche, con l’obiettivo di farle “dimenticare” il nucleo psicotico alla base della sua paranoia. Contemporaneamente, cercavo a poco a poco, senza forzare, di farle capire che si trattava di produzioni della sua mente. Per esempio in metro “sentiva” una persona che parlava di lei e io ribattevo: «Ero presente, ha detto questa frase che tu hai interpretato in un certo modo, ma non si riferiva a te».
Da allora, soprattutto per la capacità della psichiatra di seguire mia moglie aggiustando la terapia, le cose sono migliorate. A poco a poco abbiamo trovato un equilibrio, lei ha ripreso capacità operativa in casa, esce con me o altre persone ad affrontare quel mondo ostile da lei tanto temuto.
E visto che le idee deliranti tornano, cerchiamo di tenere la sua mente sempre impegnata. Prima passava la giornata camminando per casa, avanti e indietro, o a letto. Invece adesso usa per esempio i giochi al computer per rimettere in moto la mente, stimolando la memoria. E questo le evita di entrare in quel giro di pensieri che poi si traducono in “voci”.
 
Questa sua sofferenza mi ha fatto maturare. Spesso consideriamo le persone con disturbi mentali come da tenere a distanza, emarginare o rinchiudere. La malattia mentale si manifesta in un modo così drammatico proprio per l’ignoranza e il pregiudizio. Ma le cose stanno cambiando. Pensiamo che in ogni condominio c’è almeno una persona che soffre.
Se in questo periodo sono migliorato, è anche perché non mi sono rinchiuso, ma ho mantenuto ambienti, amicizie, sfide al di fuori. È cambiata anche la mia visione del mondo: ero e sono non credente, ma ho imparato a distinguere il piano etico da quello metafisico. Il piano etico è la relazione con l’altro, prescinde da qualsiasi credo, attiene all’umanità, e può darci la chiave per vivere serenamente. Invece, prima della malattia davo priorità al piano metafisico, quello delle idee e convinzioni, finendo per criticare le persone che non la pensavano come me, specialmente se cristiane.
Adesso, separati i due piani, sono libero di avere rapporti con tutti. Questo è importante anche nel legame con mia moglie. Per il futuro, sono consapevole che dovrò gestire questa situazione per tutta la vita, mi aspetto ricadute, ma adesso so come affrontarle, come coglierle al primo barlume e intervenire rapidamente.

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