La mente del viaggiatore

Aprirsi all'ignoto cambia la nostra testa, il modo di guardare al mondo e agli altri.

Annota argutamente Charles Darwin, padre della teoria dell’evoluzione ma ancor prima grande viaggiatore, come il viaggio intorno al mondo l’avesse radicalmente cambiato. Prova ne è che la prima volta che suo padre lo rivide, si voltò verso gli altri figli ed esclamò: «Guarda, guarda, la sua testa ha decisamente cambiato forma».

E non si tratta solo di una metafora. Davvero viaggiando possiamo fare un’esperienza che cambia la nostra testa, il nostro modo di guardare al mondo e agli altri. Questa esperienza però ha bisogno di alcune condizioni: non è il viaggio frettoloso e incalzante imposto da un modo di vivere che portiamo con noi anche durante le pause dal lavoro, non è il viaggio del conferenziere da un albergo all’altro, da un aeroporto all’altro, non è il viaggio del turista che arriva alla meta per chiudersi in un luogo protetto e sicuro entro il quale trovare riposo o il conforto di un ambiente in tutto simile a quello che ha lasciato a casa.

È un tipo di viaggio che comincia con la disposizione ad aprirsi all’ignoto e che implica la capacità di vivere bene l’attimo senza sacrificarlo completamente ai programmi e ai progetti. Un viaggio che si rende possibile solo se siamo disposti ad incontrare l’altro, ad accogliere l’evento inatteso, a scoprire il luogo sconosciuto.

 

Non esiste viaggio senza che si attraversino frontiere tra Paesi, tra culture, tra lingue, tra i muri che ci separano l’uno dall’altro. Oltrepassare queste frontiere ha delle implicazioni che si ripetono: qualcosa o qualcuno che ci sembrava vicino e conosciuto si rivela straniero e non decifrabile; nello stesso modo un paesaggio, un individuo, una cultura che ritenevamo diversi e lontani si dimostrano familiari ed affini.

Infatti, la mente del viaggiatore, secondo la suggestiva immagine proposta dal sociologo Eric J. Leed, sviluppa un’attitudine e un’abitudine a confrontare, a cercare punti di differenza e somiglianza, ad addomesticare in qualche modo tutto ciò che egli non conosce.

Il viaggiatore attraversa un mondo che non gli è familiare ed elabora una tecnica che gli consente di ridurre la distanza tra quanto gli è ignoto e quanto gli è noto. Questo procedimento aiuta a riconoscere nell’ignoto alcune somiglianze con quello che già conosciamo e dunque riduce le differenze tra contesti e rende in qualche modo familiari ambiti molto lontani tra loro.

Racconta lo scrittore turco Orhan Pamuk del senso di libertà che gli ha procurato l’essersi perso per le calli e i campi di Venezia: dopo un primo momento di smarrimento, la felicità di riconoscere un luogo familiare che gli ricordava le strade contorte, irregolari e scoscese della sua Istanbul. Perché, ricorda Pamuk, «la gente come me si districa tra le strade delle città incidendosi nella mente le immagini dei luoghi, diversamente da quelli di New York che fissano i numeri delle vie».

 

L’esperienza del viaggio è un’esperienza di conoscenza che cambia il soggetto che la compie, il suo modo di percepire il mondo. Racconta David Grossman, scrittore israeliano, di un viaggio compiuto in Galilea, da solo e a piedi, superando quella barriera invalicabile che divide in terra di Israele gli ebrei dagli arabi. «Ho subito capito che il viaggio mi aveva cambiato: la gente che ho incontrato, le mie conversazioni con loro, essere attento alle cose a cui prima non ero sensibile, come fiori, animali, odori, colori». Prosegue Grossman: «Per me è stato trovare il coraggio di capire. Capire altra gente, tentare di vedere la realtà attraverso gli occhi di altre persone, diverse da me e alle volte persino nemici. Tentare di osservare la realtà da quanti più possibili punti di vista». Viaggiare è superare il timore di andare anche in posti che possano fare paura, per trovare anche lì insperati compagni di viaggio.

Il viaggio nella letteratura classica, da Omero in poi, viene sempre concepito in senso circolare. Il viaggiatore è Ulisse che ritorna sempre a casa, tra le proprie cose, alle proprie origini. Il viaggio l’ha arricchito ma egli è rimasto fedele a sé stesso. Nella modernità invece il viaggiatore porta a compimento un viaggio che non prevede ritorno a casa, perché durante il viaggio egli perde la propria identità per assumere un’identità completamente diversa. Il viaggio è occasione di scoperta della precarietà del mondo e insieme della estrema fragilità della propria condizione.

 

E oggi quale viaggio è ancora possibile? Nella splendida introduzione al suo libro L’infinito viaggiare, lo scrittore Claudio Magris propone di tornare a riflettere su questa doppia natura del viaggiare. L’uomo nel viaggio si perde, perde le proprie certezze, perde in qualche modo il proprio centro per abbandonarsi al mondo.

Eppure è attraverso questa esperienza che egli può imparare a ritrovare sé stesso, a sentirsi ospite, straniero, randagio e così comprendere «che non si può mai veramente possedere una casa, uno spazio ritagliato nell’infinito dell’universo, ma solo sostarvi, per una notte o per tutta la vita, con rispetto e gratitudine».

 

La parola ai lettori

Viaggiare significa cambiare?

Scrivete a segr.rivista@cittanuova.it o all’indirizzo postale.

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