La mente ama
Appunti sull’opera e chiacchierata di Tanino Minuta con Alessandro Bertirotti, autore del testo pubblicato dalle Edizioni il Pozzo di Micene, Firenze.
Attendevo il testo dell’amico, prof. Alessandro Bertirotti, perché me ne aveva parlato e perché, conoscendo la sua “passione” per la materia che insegna, Antropologia della mente, ero certo che questo manuale avrebbe avuto un messaggio anche per me.
Mi son messo a leggere il testo, che ha come sottotitolo “Per capire ciò che siamo con gli affetti e la propria storia” e la prima impressione è stata di trovarmi in un’aula universitaria ad ascoltare l’erudito antropologo. Sì, perché già le prime pagine mettono il lettore in uno stato di ascolto e l’incalzare delle informazioni quasi lo costringono a prendere appunti, a cercare riferimenti oltre il libro. Insomma uno studio guidato. Perfino le parole, denudate da scorie, sono riportare al loro significato originale.
Mi dicevo: un manuale di questo calibro non si può portare certamente sotto l’ombrellone. E qui mi sono sbagliato. Infatti più andavo avanti nella lettura più mi accorgevo che gli esempi, le spiegazioni, i paragoni avevano bisogno di un fondale vero, vivo: la vita.
I capitoli sono impostati in modo da far comprendere subito il principio teorico che ha sempre un ricco corredo esperienziale e questo fa sì che il lettore possa entrare introspettivamente nel contenuto della teoria attraverso un’infinità di paragoni. Il cuore del libro, il perché dell’opera è che ogni azione che l’uomo compie è mossa da spinte affettive e quindi il nostro volere è ragionevol-mente amoroso.
L’intuizione strabiliante è che, contenendo il cervello le leggi del cosmo, nella conoscenza del processo del pensare si può accedere al mistero in cui l’umanità è immersa. Si tratta, in termini antropologici, di partecipazione, coinvolgimento con fatti e situazioni. Sta qui lo scopo che Bertirotti magistralmente si prefigge, attraverso il metodo applicato alla sua esperienza didattica: è uno dei messaggi del libro stesso, il suo contenuto.
“Oggi, non è più possibile pensare alla propria esistenza senza essere responsabilmente chiamati ad occuparci dell’esistenza dell’intero ambiente, inteso sia come espressione naturale sia come espressione antropomorfizzata della vita intera. In questo contesto, la coscienza umana si esprime attraverso nuove forme di volizione ed intenzione, grazie alle quali le nostre reazioni si stanno sempre più dirigendo verso forme di solidarietà ed empatia assolutamente necessarie per la prosecuzione dell’intera specie. Ammesso e non concesso che si possa pensare allo sviluppo della specie come prerogativa esclusivamente determinata dall’evoluzione della specie stessa, la consapevolezza che abbiamo acquisito durante questo sviluppocirca il ruolo dell’ambiente, dell’altro e della natura nella formazione della propria identità, ci conduce oggi a percepire la vita come una evoluzione totale, all’interno della quale tutte le differenze, seppure coesistenti, intersecandosi fra loro si stanno volgendo verso l’unità finale” (pag. 146).
Bertirotti afferma che futuro significa adattarsi alla cooperazione. “Ma quello che intendiamo quando diciamo che è la mente ad adattarsi, significa che siamo noi a sviluppare una coscienza circa questo adattamento, indirizzandolo ad alcune mete e non considerandone altre. (…) Dunque, il nostro adattamento è sempre una razionalizzazione della mente e non una semplice risposta all’ambiente”. (pag. 147).
L’autore si rivela anche in quest’opera un educatore. Però considerando le ultime pagine del libro che sfiorano un argomento inaspettato per il suogenere, e cioè il “miracolo”, si arriva facilmente a dire che Bertirotti è un mistagogo ed essendo un antropologo è chiaramente un educatore al grande mistero dell’uomo.
Questo ciò che ne ho dedotto finora, ma se mi rimetto a leggere il trattato, sono certo che scoprirò mille altre scintille di luce.
Chiedo direttamente a Bertirotti se ho visto bene, se ho letto bene, cosa devo rileggere e… meditare:
«Hai letto bene davvero e la tua vista è ancora perfetta, stai tranquillo! Anzi, prima di risponderti con qualche ulteriore commento, consentimi invece di ringraziarti per la profondità della tua analisi e l’attenzione che hai dedicato alla lettura di questo testo. È il frutto di due anni di lavoro, cioè di appunti presi tra un volo e l’altro, di riflessioni scaturite dal mio rapporto con gli studenti, di meditazioni personali e solitarie. Posso solo dirti che probabilmente, dopo averlo lasciato per un po’ di tempo sul proprio comodino, la sua rilettura potrebbe far scaturire considerazioni che la prima volta si sono tenute lontano dalla nostra coscienza.
È accaduto anche me, perché io ho sempre l’abitudine di leggere, come volessi diventare lettore di me stesso, i testi che pubblico e mi rendo conto, quasi sempre, che ogni libro è come un “antipasto” della vita, la mia e quella altrui. E con questo non voglio dire di essere l’unico autore che suscita questo pensiero, perché penso invece che ogni testo, in quanto tale, debba essere letto più volte in periodi diversi della propria vita».
Ciò che mi affascina in questa opera, più che opera la chiamerei percorso con te, è il punto finale, la tensione all’unità. Sembra un’eco di Teilhard de Chardin che nell’opera Il fenomeno umano dichiara che lo scopo dell’universo, la sua storia ha un punto di convergenza, il Cristo, sintesi dell’uomo, dell’umanità. Hai attinto a de Chardin?
«Sì, ho attinto assai al pensiero di questo intellettuale, secondo me spesso dimenticato, specialmente quando si affrontano temi antropologici. La nostra coscienza di esseri umani, sia quando è rivolta al bene che al male, è direttamente connessa all’azione, e dunque alla sua dimensione teorica che è la volontà. E questa, a sua volta, è frutto inconscio di dubbi, incertezze, doveri ed obiettivi.
Quando venga a mancare anche solo uno di questi quattro elementi, è come trovarsi in mezzo al mare senza nessuna voglia di raggiungere una spiaggia qualsiasi. Anche se facciamo fatica, specialmente in questo periodo storico, a scorgere sia pure con il cannocchiale, i lidi del nostro navigare, senza il “cannocchiale della mente che è contemporaneamente anche il cuore stesso” non potremmo anelare all’Unità, che è l’unico reale movente del nostro veleggiare».
Quale messaggio vuoi far arrivare all’uomo?
«Innanzi tutto che la nostra umanità è presente in ogni singolo individuo, indipendentemente dalla storia culturale, sociale e personale di ciascuno. Essere uomini significa essere sostanzialmente e universalmente simili, uguali nei bisogni fondamentali e identici negli obiettivi essenziali. E l’obiettivo essenziale è “ragionare con amore”, perché senza amore non è possibile conoscere nulla di questa meravigliosamente misteriosa realtà.
Ma quello che ci limita, e lo fa quotidianamente, è la paura di essere davvero liberi, ossia la paura di “obbedire al mistero della creazione” che è identico a quello che dall’ameba ci ha condotti ad essere Homo sapiens sapiens. Ogni evoluzione è creazione e non esiste creazione, per l’uomo, che non sia anche evoluzione. Solo Dio è, senza evoluzione perché non ha tempo e luogo. Solo Dio è la salvezza della nostra mente razionale».