La marjiuana terapeutica

La proposta di introdurre l’uso della marijuana nella cura del dolore ha suscitato roventi polemiche. Seguendo un copione da qualche tempo, purtroppo, abituale, si sono delineati due schieramenti politici contrapposti, subito assecondati dai mass media. L’ingerenza di certo politicismo e giornalismo di basso profilo e strumentale su argomenti che non gli competono, ha raggiunto ormai livelli inaccettabili. Il nostro paese sembra diventato la terra dei “tuttologi” che pontificano di tutto e su tutto, come se avere un posto in parlamento (regionale o nazionale, non fa differenza) o nella redazione di un giornale televisivo o stampato, autorizzi a giudicare e lanciare proclami su qualsiasi argomento. Il tema della cura del dolore con la marijuana, già trattato a suo tempo su questa rubrica, è invece molto semplice. Poiché ha sicuramente una certa efficacia su questo sintomo, stimola l’appetito ed è privo d’effetti collaterali spiacevoli rispetto agli altri antidolorifici d’uso comune, tanto vale adoperarla. Vero è che nei soggetti che ne fanno uso abituale e costante da oltre venti anni sono stati riscontrati peggioramenti significativi nei test d’apprendimento, di memoria e di recupero (un po’ quello che avviene negli alcolisti cronici), come ribadito anche da due studi sperimentali comparsi sul Journal American Medical Association del marzo scorso su consumatori abituali a scopo voluttuario. Perché allora non consentirne, per il momento, l’uso con le stesse norme restrittive stabilite per la morfina? Perché non avviare studi seri, iniziando da quei malati nei quali il dolore è sintomo di una malattia che non lascia sperare in una lunga sopravvivenza, come del resto avviene già in altri paesi? La politica ed i massmedia, quelli seri, dovrebbero fare un passo indietro su certi temi ed ascoltare il parere degli esperti. Se così avvenisse, lo speriamo con tutto il cuore, il problema del dolore, per molti versi analogo a quello della morte e della vecchiaia, potrebbe essere affrontato ed approfondito nei suoi reali, molteplici aspetti. Ci troviamo, infatti, di fronte ad un sintomo che per sua natura sfugge alle leggi della ragione, nonostante la conoscenza delle vie nervose che lo generano, e richiede perciò la partecipazione affettiva d’altri esseri umani. Se il dolore fisico, oggi, è sempre dominabile con le medicine, la sofferenza psicologica che da esso scaturisce richiede il dialogo, l’empatia, la partecipazione attiva da parte del medico e dei familiari. Di persone cioè che oggi, strette tra le morse di una burocrazia sempre più complessa e di una cultura consumistica, sempre meno sanno o credono in questo importante ruolo di sostegno al malato che soffre. È a questo punto che dovrebbe scendere in campo la politica, quella d’alto profilo che tutti desideriamo, favorendo l’educazione sanitaria della popolazione su tale argomento, varando leggi che liberino il medico dalla burocrazia e consentano ai familiari di assistere i loro cari, anche se impegnati nel lavoro.

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