La marcia dell’Italia nella guerra mondiale a pezzi
La marcia Perugia Assisi è un evento che attira molta gente per un desiderio spontaneo di pace espresso dal simbolo della bandiera arcobaleno che ha evidenti riferimenti biblici.
È nata nel 1961 per iniziativa di Aldo Capitini, un intellettuale pervaso di religiosità francescana ma esplicitamente non cristiano. Promotore di una cultura nonviolenta ( scritta rigorosamente senza cesura) che non ha avuto timore di opporsi al fascismo ( Capitini fu espulso per questo dalla Normale di Pisa) e di criticare apertamente papa Pio XII. Si comprendono perciò le riserve avanzate in quel tempo del mondo cattolico verso un’iniziativa che si poneva più in linea con i “partigiani della pace”, organizzazione diffusa e plurale ma considerata pervasa dall’egemonia del Pci.
Con il passare degli anni la manifestazione è stata condivisa da larga parte delle associazioni ecclesiali con un ruolo sempre più centrale svolto dai francescani del sacro convento di Assisi. Un evento istituzionale, quindi, sostenuto dagli enti locali che rischia così di essere considerato innocuo più che un segno di contraddizione, con la presenza abituale, in alcuni tratti del cammino, di esponenti politici che catturano inevitabilmente l’interesse prevalente della stampa.
La marcia del 21 maggio 2023 cade in un momento storico preoccupante per le sorti dell’umanità con il carico di morti e distruzioni nel cuore dell’Europa che può sfociare nel punto di non ritorno dell’ecatombe nucleare, come ammettono apertamente alcuni esperti di strategia, e comunque è annunciata come imminente lo scontro sempre più violento tra le truppe di invasone russe e l’esercito di Kiev sostenuto dall’Occidente.
Non è tempo di sorrisi e canti ma di un silenzio che manifesti la partecipazione al dolore delle vittime e la necessità di fermare la strage che è il messaggio della marcia stessa. Il 20 maggio a Perugia è prevista un’assemblea di Europe for Peace dove interverrà, tra gli altri, Mario Primicerio, l’allievo più vicino a Giorgio La Pira, che ha lanciato, anche su Città Nuova, l’appello “Ora basta!” che chiede un’azione forte di Italia ed Europa per arrivare ad un cessate il fuoco senza condizioni. Una sollecitazione che non ha ricevuto finora un sostegno significativo nel Parlamento italiano pur se l’appello di Primicerio si rivolge a tutti, cioè a chi ha votato a favore o contro l’invio di armi in Ucraina.
A livello istituzionale sia Mattarella che Meloni hanno confermato a Zelensky il sostegno militare richiesto dal presidente ucraino in viaggio a Londra, Berlino e Roma. A livello Ue l’invio di armi in Ucraina è stato finanziato attingendo allo strumento europeo per la pace (EPF), un fondo fuori bilancio istituito nel 2021 per «consolidare la capacità dell’Unione di prevenire i conflitti, costruire la pace e rafforzare la sicurezza internazionale».
Zelensky si è recato anche in Vaticano per un incontro riservato con papa Francesco al quale ha ribadito di non aver bisogno della mediazione di pace della Santa Sede. Gli esperti di diplomazia potranno leggere in queste dichiarazioni una tattica insita nelle trattative che viaggiano sempre sul filo del rasoio e quindi restano aperte anche se ovviamente segrete. Sta di fatto che il messaggio veicolato non lascia sperare in una via di uscita per un conflitto che può andare incontro in qualsiasi momento ad un punto di non ritorno.
Questo scenario non può che rappresentare un vantaggio per le industrie delle armi tra cui si pone l’italiana Leonardo, ex Finmeccanica, al centro di una progressiva dismissione di comparti di economia civile a favore di quella militare. In occasione dell’ultima assemblea dei soci della società, dove lo stato è azionista di riferimento, gli “azionisti critici” della Fondazione finanza etica e di Rete pace e disarmo hanno denunciato il fatto che «negli ultimi 5 anni il fatturato militare è salito dal 68% all’83% » di quello complessivo di una realtà industriale guidata finora da Alessandro Profumo, banchiere di esplicita area dem, prima della nomina, da parte del governo Meloni, ad amministratore delegato di Leonardo del “tecnico” Stefano Cingolani, ex ministro della transizione ecologica dell’esecutivo di unità nazionale di Draghi.
La vicenda permette di affrontare uno dei nodi del mondo cosiddetto pacifista accusato di essere velleitario e inconcludente perché incapace di cimentarsi sulle scelte che contano nella vita di un Paese e cioè quelle di politica economica e industriale. Magari si promuovono convegni sui 60 anni della Pacem in terris ma non si riesce a puntare l’attenzione sulle leve concrete che possono fondare una scelta di pace in coerenza con la messa in atto di quella transizione ecologica che rende possibile il futuro stesso dell’umanità.
La scelta di un’economia disarmata e di una riconversione ecologica integrale passa necessariamente dalla capacità di esercitare una reale democrazia economica con l’impegno dei lavoratori di queste grandi imprese, assieme alla pressione della società civile, ad incidere nelle decisioni che contano e cioè cosa, per chi e come si produce.
Secondo una istanza condivisa dal Forum diseguaglianze e dall’Alleanza per lo sviluppo sostenibile, la presenza determinante del pubblico nel capitale di società quali Leonardo, Fincantieri, Eni, Enel, Terna,… non può essere quello del cassettista e cioè di un privato interessato solo al ritorno degli investimenti ma deve esigere una rendicontazione della finalità sociale dell’impresa.
È chiaro tuttavia che tali considerazioni sono destinate a restare un semplice esercizio retorico davanti ad un processo di riarmo che dura da decenni e che ha ora trovato la sua legittimazione definitiva con la guerra in Ucraina.
Il nostro Paese sembra aver abbandonato una tradizione politica fedele ad un europeismo distinto da una rigorosa fedeltà atlantista. La mancanza di un minimo dibattito pubblico sulla conferma del nuovo concetto strategico della Nato approvato a fine giugno 2022 dai 30 Paesi dell’Alleanza, non permette di delineare una linea di politica di difesa europea che non sia una stampella della Nato.
La discussione aperta sul modello di organizzazione delle forze armate dei Paesi Ue dovrebbe condurre ad una razionalizzazione del settore degli armamenti nel senso della riduzione dei doppioni e del superamento nella competizione delle varie imprese nazionali sui mercati internazionali con l’adozione di regole che militano la vendita di armi ai Paesi in guerra e/o violano i diritti umani.
Di fatto invece si firmano trattati bilaterali di amicizia tra Paesi come Italia e Francia che si contendono le commesse di armi come avvenuto nel recente World Defence Show che si è tenuto nel marzo 2022 in Arabia Saudita.
Alla stessa maniera Fincantieri ha dirottato verso l’Egitto le fregate Fremm destinate alla Marina militare italiana nel tentativo di accreditarsi per ulteriori grandi commesse al posto delle aziende francesi. Fincantieri, controllata al 71,3% da Cassa depositi e prestiti, ha venduto le stesse navi da guerra all’Arabia saudita tramite la sua controllata statunitense.
I settori trainanti della transizione ecologica sono diversi da quello delle armi, l’unico sul quale sembra che esista una politica industriale diretta dalla mano pubblica, come mette bene in evidenza il lavoro di ricerca esposto da Andrea Roventini della scuola superiore sant’Anna di Pisa nella relazione offerta nel seminario promosso recentemente presso il Cnel dal Forum Disuguaglianze a partire dalla tabella di marcia evidenziata dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) per arrivare alle emissioni zero entro il 2050. Un traguardo indispensabile per salvare il pianeta.
Per poterlo realizzare «lo Stato deve avere un ruolo attivo nella creazione e sviluppo di tecnologie, mercati e industrie. Con le politiche industriali e le tecnologie indicate da IPCC e IEA: non sfruttare nuovi giacimenti di gas, petrolio e carbone, elettrificare massicciamente l’economia, vietare la vendita di caldaie a gas dal 2025 e di auto a benzina e diesel dal 2035, investire in rinnovabili per coprire il 90% del fabbisogno energetico nel 2050» (Roventini).
Tale priorità si scontra con la logica che richiede al nostro Paese di assumere un ruolo geopolitico decisivo, anche se satellitare, nella vasta area del Medio Oriente allargato al quale Leonardo ha dedicato una Fondazione presieduta dall’ex ministro Marco Minniti e che annovera nel comitato scientifico buona parte del mondo accademico e della cultura. Come dice con chiarezza Federico Rampini, secondo tale ragionamento, non potremmo avere un peso nel mondo restando una “potenza erbivora”.
Una strategia a suo modo coerente risponde al dilemma posto da Federico Caffè, il grande economista del quale molti si dichiarano allievi, nel 1983: «si tratta di stabilire se il nostro Paese “ritardatario” debba proporsi e perseguire ideali amministrativi di bonifica ambientale, di eliminazione del persistente sfasciume geologico, di elevazione del grado di qualificazione professionale dei giovani in cerca di lavoro, di ricerca impegnata di nuove possibilità di impiego; o se intenda essere pedina di altrui imperialismi, svolgendo inoltre questo ruolo di sovranità limitata con la ben nota “cupidigia del servilismo” di cui già altra volta gli è stato mosso addebito».
Analisi che già nel 1983 ponevano in evidenza la necessità di una politica di difesa del territorio, tra “bonifiche ambientali” e “sfasciume geologico”, che sono quanto mai attuali davanti alle tragedie delle inondazioni incontenibili in un Paese che deve decidere il posto che vuole avere nel mondo.
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