La marcia dei disperati continua
Se nel nord dell’Africa la disperazione spinge ad avventurarsi su barconi precari, in America Latina migliaia di poveri attraversano da sud a nord il Messico, affrontando il deserto, i cartelli della droga, i trafficanti di esseri umani e mille altri pericoli pur di giungere alla frontiera con gli Usa. La speranza è quella di varcare clandestinamente la frontiera… poi si vedrà.
Da qualche comodo salotto e assaporando un buon ragù nostrano mentre la tv parla dell’ennesimo sbarco di migranti, pare di udire il commento di rito: «Bisogna essere irresponsabili per esporre i propri figli a rischi tali». Ma il ragionamento può essere anche inverso: bisogna essere in condizioni disperate per considerare che restare sia peggio che affrontare il mare in un barcone.
È la conclusione che traggono centinaia di migliaia di centroamericani che lasciano Honduras, El Salvador e Guatemala fuggendo dalla violenza prepotente delle maras, le bande legate da assurdi patti di onore, spesso ex paramilitari disoccupati per la fine dei conflitti civili o delle dittature. Fuggono da terre difficili da coltivare e da climi estremi, taglieggiati dai delinquenti, oppressi dai trafficanti di droga. Fuggono anche da uno Stato assente, inefficiente e spesso corrotto. Fuggono da scuole fatiscenti, senza materiale didattico (appena il 18% delle scuole guatemalteche sono pubbliche); fuggono da ospedali senza medicine e con medici latitanti, dall’analfabetismo, da un sistema di pensioni appena accennato.
Sono gli effetti dello “Stato minimo”, predicato quale ricetta ideale, ma senza considerare che dove abbonda la povertà chi si può pagare i servizi essenziali è appena una ristretta minoranza della popolazione. È per questo che la metà dei 520 mila illegali che le autorità statunitensi hanno fermato in un anno alla frontiera provengono da questi tre Paesi centroamericani. Nel 2000 il 98% degli illegali detenuti erano messicani. Ed è un numero in crescita: nell’ultimo anno è aumentato del 25%. Del totale, le famiglie erano più di 107 mila. Il dato più duro e commovente è quello dei minorenni che viaggiano da soli, spesso appena bambini e bambine: 59 mila nell’ultimo anno, 10 mila in più rispetto all’anno precedente. Sono alla ricerca dei loro genitori, dei quali in molti casi non hanno più notizie. Affrontano il viaggio con 10 o 20 dollari in tasca.
Una parte di loro, una volta in Messico, cercherà di aggrapparsi ai vagoni de “la bestia”, il lungo treno merci che percorre da sud a nord il Paese trasportando migliaia di illegali, vagabondi, ricercati dalla polizia. Ed anche qui, sul treno, accadano drammi atroci che spesso meritano appena un trafiletto sulla cronaca di un giornale locale: il corpo di un ignoto, apparentemente minorenne, ritrovato senza documenti a ridosso dei binari… In un Messico sotto i colpi di frusta di un incremento inedito della violenza, la morte nella massima parte dei casi non fa notizia.
Da settimane ormai, ne abbiamo già parlato (qui), una carovana della disperazione ha preso a muoversi dall’Honduras. Ora sono già più di 8 mila e hanno varcato la frontiera col Messico. È stato vano il tentativo de fermarli: come un’ondata di piena, la gente si è riversata lungo la strada che va a nord. Gli appelli delle autorità messicane sono caduti nel vuoto. Pochi credono alle promesse e le poche centinaia che lo hanno fatto ora aspetteranno mesi prima di essere rispedite al loro Paese di origine.
Siamo di fronte a una inedita emergenza umanitaria. Incurante di ciò, Donald Trump ha annunciato che opporrà i militari che sta già inviando a migliaia alla frontiera. In piena campagna elettorale di midterm, non ha esitato a ricorrere alle consuete fake news che ai suoi elettori infondono tanta sicurezza: la carovana è finanziata dal Venezuela; tra gli illegali non si può escludere la presenza di terroristi mediorientali; le malattie a rischio contagio proliferano…
In questi casi non manca mai l’ormai conosciuto suggerimento: aiutiamoli a casa loro. Una “casa loro” trasformata in campo di battaglia, con l’economia condizionata proprio dagli interessi del Paese che oggi costruisce muri e manda l’esercito. In queste condizioni pare difficile che il risultato sia differente, qui come in Europa.