La malattia è cambiata
Dal 1981 ad oggi sono stati fatti tanti passi in avanti. Ma il virus colpisce ancora e rimane molta ignoranza.
Dopo 30 anni di Aids e 25 milioni di morti la malattia è cambiata, ma non accenna a diminuire la presa. Contrariamente a quanto si pensa, l’epidemia è cresciuta in Europa e a contrarre la sindrome non sono più in maggior parte omosessuali e tossicodipendenti, ma eterosessuali giovani e adulti, in seguito, per lo più, a rapporti occasionali. C’è scarsa attenzione alla prevenzione, molta ignoranza, tanti luoghi comuni nell’approccio al problema e alle persone che ne sono state colpite.
Le persone positive al virus Hiv sono più di 33 milioni nel mondo, di cui oltre 30 milioni residenti nei Paesi in via di sviluppo; 150 mila in Italia, dove si registra un nuovo caso ogni due ore. Questo secondo i dati Unaids pubblicati nel Global report 2010.
Cosa è successo nei 30 anni passati dal 1981, anno in cui vennero individuati i primi casi di persone affette da quella che pian piano fu definita come “sindrome da immuno‑deficienza acquisita” ossia Aids? Tante cose, certamente, come la messa a punto di nuove terapie che, se non guariscono, consentono almeno un livello di vita accettabile; la sperimentazione, ancora in corso, di vaccini sia terapeutici che preventivi; la diffusione della profilassi per evitare che il virus si trasmetta da madre in figlio durante la gravidanza. Piccoli‑grandi risultati che, purtroppo, riguardano più che altro il mondo occidentale, mentre nei Paesi in via di sviluppo l’accesso alle cure per tutti è ancora un’utopia. Ne abbiamo parlato in altre occasioni.
Nonostante tutto questo, però, dobbiamo registrare il fatto che la regione europea dell’Organizzazione mondiale della sanità (la fascia dei Paesi dell’Europa e dell’Asia centrale) è attualmente la regione del mondo con il più alto tasso di crescita dell’Hiv. A poco sembra valsa la Carta di Dublino, un documento adottato da 53 Paesi il 24 febbraio 2004, che aveva stabilito 33 azioni guida per combattere l’epidemia. Se, infatti, in generale, sono state investite più risorse, è risultata poco efficiente la loro distribuzione che non ha raggiunto adeguatamente la fascia di popolazione meno tutelata: carcerati, tossicodipendenti, prostitute, immigrati, omosessuali. Ed è stato disatteso l’impegno a combattere lo stigma, la discriminazione, la violazione dei diritti umani.
Cosa fare di più? Coinvolgere la società civile, sorvegliare, prevenire… Sono tutti consigli, ovvi, suggeriti da più parti. E poi un’indicazione da non sottovalutare: sottoporsi al test. Come sostiene Gianni Rezza, direttore del dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità, «a seguito di comportamenti a rischio un accesso tempestivo al test Hiv può significare la possibilità di iniziare un efficace percorso terapeutico, se si è contratta la malattia, e può limitare la diffusione del virus». Il test in Italia è gratuito, prevede la possibilità di mantenere l’anonimato, e possono effettuarlo anche le persone straniere prive di permesso di soggiorno.
Nel nostro Paese, poi, esiste il “Servizio telefono verde Aids” dell’Istituto superiore di Sanità (800 861061) al quale poter chiedere tutte le informazioni possibili. Anche per non pensare che basti una stretta di mano o uno starnuto per contagiarsi. Sarebbe già un bel passo in avanti.
La paura non è scomparsa
L’esperienza di una casa famiglia nel cuore di Roma che punta sulla promozione integrale della persona
«Datemi un posto dove io possa far morire dignitosamente queste persone». A fare questa richiesta era a Roma nell’88 don Luigi Di Liegro, direttore della Caritas romana e instancabile prete al servizio degli ultimi – «nessuno muoia da solo», diceva. Si riferiva a nove persone gravemente malate di Aids che nessuno voleva e di cui lui si occupava. «L’sos di don Luigi trovò una risposta il 6 luglio di quell’anno – mi racconta Marisa Gobbini, all’epoca assessore sociale al II municipio – quando il Comune di Roma deliberò l’apertura della casa che prima era stata usata dai bambini malati di tbc. Ma non bastava la decisione delle autorità. Le persone del quartiere non volevano questa casa, perché la malattia all’epoca era del tutto sconosciuta e faceva paura. Per questo fu necessario incontrare la cittadinanza, ma neanche questo bastò. Fu così che, con alcuni consiglieri di tutti gli schieramenti, una notte siamo venuti qua, abbiamo scavalcato i cancelli e aperto la casa dove abbiamo ricoverato i malati. Subito dopo con alcuni amici del Movimento dei focolari ci siamo adoperati per accompagnare l’ultimo tratto di vita di queste persone».
Inizia così la storia della casa famiglia di Villa Glori, nel cuore di uno dei quartieri più “in” di Roma, i Parioli. Attualmente è gestita dalla Caritas e ospita 25 persone in età matura, più una bambina di un anno. Massimo Raimondi ne è il responsabile: anche lui all’epoca fu uno di quelli che lottò per l’apertura della struttura.
«La paura dell’88 non è scomparsa – ci confida –; c’è ancora una grossa difficoltà ad avvicinarci, e per questo lavoriamo col territorio. Quando entriamo in rapporto le cose cambiano, conoscere la realtà fa superare la paura, tutti i luoghi comuni, ma questo è un impegno faticoso».
Che tipo di esperienza fate come operatori?
«L’esperienza più grossa è conoscere l’uomo nella sua complessità. È chiaro che il nostro è un lavoro di cura e di assistenza, ma non è solo questo; qui si tratta di far venir fuori la parte migliore delle persone che magari per anni è stata compressa, di far ritrovare motivazioni perdute, di entrare in relazione. Le assicuro che il confronto non è facile».
Come vi sostenete economicamente?
«Siamo finanziati dalla regione Lazio per l’assistenza e la cura delle persone, ma per tutte le altre attività di supporto, come laboratori di ceramica, teatro, incontri con gli studenti, ci aiuta la Caritas che sostiene il nostro impegno di promozione della persona».
Chi arriva in questa struttura?
«Qui viene chi non ha una soluzione abitativa adeguata o non ha una famiglia che sa gestire la complessità della malattia. Vengono proprio gli ultimi. Arrivano in condizioni disastrate, dal momento che in genere hanno vissuto in strada, e quindi noi cerchiamo prima di tutto di rimetterli in sesto, facendoli aderire alle terapie, aiutandoli a ricominciare a mangiare; successivamente si cerca di capire il disagio (tossicodipendenza, alcolismo, prostituzione) che li ha portati a questa malattia e capire se hanno motivazioni per uscirne. Le problematiche più diffuse sono la tossicodipendenza e l’omosessualità».
C’è un limite di tempo al soggiorno in casa famiglia?
«No, dipende tanto dal lavoro che fanno su sé stessi; ma il grosso limite è la società. Cosa prospettiamo loro? Tornare per strada? La nostra frustrazione è quella di riuscire a dare ad una persona delle motivazioni per superare i suoi problemi ma poi non trovare il modo di farla reintegrare. In questo senso è stato importante, ad esempio, riuscire a impiegarli nella pulizia di Villa Glori, perché tale impegno dà loro la possibilità di lavorare, guadagnare dei soldi, rendersi utili. Alcuni di loro, quando hanno firmato il contratto, il primo della loro vita, avevano le lacrime agli occhi. La voglia di normalità c’è, ma non è facile. Comunque con la Caritas ci attiviamo in tutti i modi».
Lavorate sulla prevenzione?
«Sì, proponiamo incontri nelle scuole e ospitiamo classi di studenti. Ci siamo resi conto che l’approccio all’Aids si è ridotto spesso ad una diatriba tra laici e cattolici, tra uso del preservativo e no. Così succede che fra 300 studenti che magari un giorno vengono qui, tutti sanno come si usa il profilattico perché gli è stato spiegato per evitare conseguenze spiacevoli, ma magari pensano che stringere la mano a un malato di Aids li possa contagiare. Non mi pare che sia passato un messaggio corretto».