La magia dinamica di Umberto Boccioni

A Milano, a Palazzo Reale e Castello Sforzesco, una grande rassegna a 100 anni dalla morte è occasione di una rivisitazione sull'artista e sul mito della velocità. E di una riflessione sugli effetti attuali di questo sogno. Visitabile fino al 10 luglio
Umberto Boccioni

È sorprendente. Il bronzo del 1913 Forme uniche della continuità dello spazio, ammirato a cent’anni di distanza, sconvolge ancora. Innovativo sicuramente al suo tempo, oggi seduce per una caratteristica fondamentale: l’intuizione – e la resa espressiva – che il Novecento ma anche il Duemila sarebbero state le epoche della velocità, del ritmo e del suono. Cioè di un modo diverso di essere uomini, di vivere. In parallelo con la musica dodecafonica, ma pure con le folgorazioni ritmiche di uno Strawinski, con la pittura di uno Schiele e di un Picasso, con il cinema nato come luce e movimento, Boccioni supera l’idea di tempo e di spazio, di armonia e di dimensioni consuete, e punta a una nuova armonia, a una nuovissima unitaria concezione del mondo e di conseguenza dell’arte.

 

Il bronzo che è e non è corpo, che è e non è plasticità, si muove come colore caldo, vibra di pulsioni che si direbbero elettriche, si situa dentro lo spazio come icona di una vitalità e di una energia pronta a sempre nuove scoperte. Certo, c’è anche qualcosa  della scultura di un Rodin, del suo plasticismo avvolgente ed esasperato, ma Boccioni se ne distanzia perché tende all’astrazione. La tela del Corpo umano del 1913 dal sottotitolo significativo "Dinamismo", ne esprime la carica vitalistica in una scomposizione della figura che certo rimanda a Cézanne o si situa nella linea di un Picasso, eppure innova con il senso di un vortice anche coloristico che appare una fibrillazione dell’anima. Da qui alle tele “gocciolanti” di un Pollock la distanza non sembra così abissale.

 

C’è una furia nell’arte di Boccioni. I disegni, i ritratti come la Donna al caffè, scomposta in geometrie allucinate del 1914, l’Antigrazioso – bronzo del 1913 – volutamente imbruttito a dire che la maschera umana cambia di continuo a seconda delle emozioni, parlano di inquietudine nervosa, di lampi anche drammatici, insomma di una volontà di affrontare la vita e la storia con impeto, aggressivamente: perché il dolore c’è e Boccioni non lo nasconde.

 

Certo di strada ne ha fatto l’artista, dal Ritratto di bambino del 1908 – concentrato sullo sguardo, i colori già sfuggenti –, al Canal grande a Venezia del 1907 – con le suggestioni divisioniste di un Previati –,  fino al Romanzo di una cucitrice con l’alta figura di donna leggente alla finestra e all’Idolo moderno del 1911, balenante di luci inquietanti.

 

Un’aria quasi alla Gozzano, il poeta che distruggeva senza farlo vedere (a differenza ad esempio di un Palazzeschi) l’aria classica della poesia, così come Boccioni puntava già allora alla “dissoluzione della forma”: alla “morte” del corpo così come tradizionalmente veniva raffigurato per far posto al dinamismo dell’esistenza, al culto della velocità, del moto perpetuo del mondo che stava venendo e che in futuro sarebbe proseguito verso mete ancor più rapide, e forse pericolosamente disumanizzanti. Ma di quest’ultimo aspetto, in Umberto Boccioni non v’è traccia. Troppo forte è in lui l’ottimismo di una umanità che si scopre vittoriosa e aperta  alle nuove conquiste come siglava, firmando il Manifesto dei pittori futuristi nel 1910.

 

A cent’anni dalla morte dell’artista – in pieno Primo conflitto mondiale a 34 anni, cadendo da cavallo –, la grande rassegna milanese è occasione di una rivisitazione su di lui e sul mito della velocità, del mondo magico di un sognatore. E di una riflessione sugli effetti attuali di questo sogno.

 

Milano, Palazzo Reale e Castello Sforzesco. Fino al 10 luglio (catalogo Electa)

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