La Madre di Moretti incanta Cannes

Il film del regista italiano riceve applausi a scena aperta per una pellicola di dolore e di morte dove non sono esenti scene di ilarità tipiche del suo stile. Un'indagine coraggiosa sui rapporti umani ma anche sul tempo che stiamo vivendo.
Moretti

Nanni Moretti ritorna dopo quattro anni sullo schermo, nel suo dodicesimo film e parla di dolore e di morte. Ne parla come uno che, superata la soglia fatale dei sessant’anni si trova a fare i conti sia con la vita – la morte di una madre, vissuta da lui stesso mentre lavorava all’ultimo film “Habemus papam” – sia con il suo lavoro di regista.

A cosa serve il dolore? Sembra in filigrana la domanda di Nanni che, per fortuna, si riserva la parte del fratello, calmo e sensibile, mentre lascia la parte di protagonista ad una Margherita Buy smarrita, incerta nel suo lavoro di regista, egocentrica e al tempo fragile, vero alter ego morettiano.

Mentre lei gira un film di carattere “sociale”- si vuol chiudere una fabbrica e darla ad un americano (un John Turturro  spocchioso, che ha una americana nostalgia di una “dolce vita” inesistente ed è una sapida caricatura morettina)-,  il fratello Giovanni assiste la madre in ospedale nel suo lento declinare e arrivare alla morte.

Moretti alterna stringatamente le due storie parallele mentre Margherita è intimamente divisa tra la vita del set, anche burrascosa e inconcludente (dove Moretti è spietatamente critico verso la prosopopea dei registi, ma anche di certo cinema “d’autore impegnato”, cioè di sè stesso?), la famiglia (la figlia che non studia il latino, un ex marito, un ex amante,) e la madre.

Anche se Moretti cerca di frenare il dramma con momenti di ilarità – forse un po’ forzata come nel ballo per il compleanno dell’attore Turturro e nelle riprese tragicomiche sempre di lui al volante di una macchina, la commozione qua e là si insinua, la solitudine si fa pesante (la scena di Margherita che ha degli incubi e che scopre la casa allagata), e si mettono in discussione tutti i rapporti umani.

Per quanto il film sia sempre costruito molto razionalmente e meditato, Moretti non finge più di tanto e inizia a sciogliere il suo cuore in apparenza tanto duro e invece così ipersensibile.

La malattia della madre fa lentamente aprire gli occhi ai due fratelli, Giovanni che rifiuta la sicurezza del lavoro per accudirla e Margherita che scopre la vanità, la vanagloria di un lavoro, dove viene obbedita comunque, eppure rimane frustrata e lontana dalla vita vera.

Giulia Lazzarini regala il ritratto di un’anziana che ama la vita e il lavoro ed a fatica si rassegna alla malattia, con momenti di struggente verità che fanno balzare in alto l’umanità del racconto. Se ne va con una alta dignità, “pensando al domani”. Quale domani ci sarà per la vita, per l’arte, per il cinema, per lui, Nanni Moretti e per lo spettatore? Cosa ci salverà da noi stessi? Forse l’amore?

Moretti si guarda allo specchio, con più coraggio del solito e forse anche il pubblico.

Il dolore e la morte hanno forse la capacità di far aprire gli occhi su ciò che vale, sulla qualità dei rapporti umani, sul tempo in cui stiamo vivendo, comprese le forme d’arte come il cinema.

Film intenso, amaro anche, cervellotico in qualche passaggio, con la fotografia luminosa- bellissimi i primi piani della Buy e della Lazzarini  di Arnaldo Catinari, e le musiche di Arvo Part. Recitato alla grande, rivela un Moretti insolito, più profondo e libero. Cannes accoglie la pellicola con un lunghissimo applauso.

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