La Madonna profuga
Claudio, che da siciliano ne sa qualcosa di paesini arroccati in qualche piega dell’Etna, si aggira compiaciuto nelle viuzze di Falconara Albanese, piccolo borgo montano di quella che un tempo veniva denominata Calabria Citeriore, raggiunto con una strada a tornanti che ci ha permesso di ammirare da tante angolature i magnifici boschi di querce, castagni e mortelle dell’Appenino Paolano. Compiaciuto perché questo agglomerato di viuzze e abitazioni per lo più modeste, incastrate l’una nell’altra come in mutuo soccorso e spesso dotate di ballatoi dove si svolge la vita di gruppo, favorisce quello che lui chiama “senso di comunità”: esci di casa e sei a tu per tu col primo vicino che s’affaccia e col negozietto a portata di mano.
Siamo nella provincia di Cosenza, comprensiva di ben 27 comunità arbëreschë, ossia italo-albanesi, alcune con rito greco e altre con rito latino, non poche con problemi di spopolamento. Come appunto Falconara Albanese, che non raggiunge i 1500 abitanti. Oggi però ce ne saranno molti di più, tra i quali Claudio ed io con altri amici, attirati in settembre dall’annuale triduo festivo in onore di una Madonna particolarmente venerata dai falconaresi: quella del Buon Consiglio. Secondo la tradizione, infatti, fu lei, col suo materno “consiglio”, a suggerire ai loro antenati d’Albania di abbandonare quella terra ormai troppo minacciata dagli ottomani per cercare nuove opportunità di vita in Italia.
Sembrano fatti a cui assistiamo quotidianamente con gli sbarchi, accolti o negati, di oggi; e invece è storia che risale alla fine del 1400-inizi del 1500, quando ondate di profughi si riversarono per lo più sulle coste calabre dello Jonio; quanti invece cercarono rifugio su quelle del Tirreno si stanziarono dapprima tra Fiumefreddo Bruzio e San Lucido, per poi trasferirsi – a maggior difesa dalle incursioni turche – in altura, là dove sarebbe sorta l’attuale Falconara, oggi parte dell’Eparchia di Lungro. L’appellativo “Albanese” venne aggiunto nel 1863, mentre “Falconara” verrebbe dai falchi che in passato soprattutto nidificavano su questi picchi, dominandoli col loro volo roteante. Ecco perché sullo stendardo comunale un falco sorvola ad ali spiegate il “Castelluccio”, roccione monolitico che si spinge fino a cinquanta metri segnando il punto più elevato del borgo.
Noi però, malgrado la comodità di una rampa, non saliremo fin lassù per visitare l’antica chiesetta dedicata all’Assunta con la cella che fu di un eremita. Siamo infatti attesi davanti alla settecentesca chiesa della Madonna del Buon Consiglio, dov’è il maggior assembramento di popolo, per assistere all’uscita della statua processionale della Vergine, che al suono di una banda venuta da Amantea sfilerà lungo le vie del paese, tra finestre e balconi adorni di pregiati broccati e delle più belle coperte di casa.
Proprio ora dall’interno della chiesa gremita sta uscendo la sacra immagine, accolta da una vivace marcetta. Non ha dimensioni tali da dover essere sostenuta da un folto gruppo di popolani, come avviene in altri centri calabresi. Bastano in quattro per questa che ricalca a tutto tondo l’altra famosa di Genazzano: un antico affresco che nel 1468, l’anno stesso della morte dell’eroe nazionale albanese Skanderberg, si sarebbe staccato da Scutari assediata dagli ottomani per giungere miracolosamente, con volo di angeli, nella cittadina laziale. Madonna profuga tra i profughi.
Questa di Falconara guarda lontano, seria, come assorta in ciò che toccherà soffrire un giorno al suo Gesù, il quale invece col gesto della mano sembra volerla distrarre da tale pensiero, specie ora che la festa in suo onore esplode. La precedono il parroco don Giuseppe e il nostro amico padre Marcello, lanciando saluti a destra e a sinistra, tanto qui tutti si conoscono. E il corteo s’avvia festoso, interrotto solo da qualche devota, il tempo di appuntare sulle fettucce che pendono dai due angeli l’offerta di una banconota: omaggio non raro, anzi ancora consueto in tanti posti del nostro Meridione.
La processione andrà ad abbracciare tutto l’abitato che, secondo una caratteristica degli antichi centri albanesi, presenta un impianto circolare, come circolare è la sua struttura più interna formata da sei gjitonie, ossia raggruppamenti anch’essi circolari di abitazioni che confluiscono in uno spazio comune, favorendo così – anche ora che lo spopolamento si fa sentire – lo scambio e l’aiuto reciproco.
Avremo modo di intercettare il corteo spostandoci qua e là, guidati dal suono della banda e dallo scoppio dei mortaretti. Intanto proseguiamo il nostro giro del borgo. Merita una visita un palazzotto settecentesco in pietra che sembra fresco di restauro: una targa lo indica come Palazzo Ildegonda, donato al comune dagli eredi delle tre sorelle Mares per adibirlo a Museo etnografico. Inaugurato solo lo scorso giugno, ha il compito di mantenere viva la memoria storica arbëresh attraverso foto, dipinti, oggetti della vita quotidiana, abiti tradizionali e una mediateca che raccoglie testi e documenti sul passato e sull’identità di questa comunità rurale che ha conservato il rito greco-bizantino, solenne e ricco di simbolismi.
Chissà se vi si narrano anche le difficoltà incontrate dai suoi antenati, portatori di una lingua che nessuno capiva, di un altro culto, di altri usi e costumi, per superare la diffidenza degli abitanti del luogo e riuscire a integrarsi in una nuova patria. Che comunque non poteva dirsi certo una terra tranquilla, logorata com’era dalle lotte politiche tra aragonesi e angioini, dall’avidità dei baroni feudali e dai frequenti terremoti. Possiamo però immaginare tanti dolorosi trascorsi, avendo presente ciò che avviene sotto i nostri occhi in Italia e in tutta Europa.