La lunga crisi del Sulcis
La prospettata chiusura dell'Alcoa è solo l'ultimo capitolo di una storia di disagio economico, sociale ed ambientale che si protrae da anni in questa zona della Sardegna. E in mezzo a tante difficoltà, la speranza ha il nome di una bambina etiope.
Apprensione, attese e speranze sono i sentimenti dominanti nel Sulcis per la vertenza Alcoa, ormai da tempo sotto la ribalta delle luci mediatiche. La fabbrica di alluminio di Portovesme, di proprietà dell’americana Alcoa, sta per chiudere. A meno di clamorosi sviluppi dell’ultima ora, il destino sembra già essere segnato per quasi duemila operai tra diretti ed indotto. Una situazione drammatica per un territorio che sconta da almeno trent’anni continue crisi: dalla fine della monocultura mineraria, a quella dell’industria di Stato, fino all’arrivo delle multinazionali, che ora delocalizzano. Alcoa ha già pronti due impianti in Medioriente, con bassi costi dell’energia elettrica e di manodopera.
Sono questi ultimi due gli elementi alla base della crisi dell’impianto sardo. L’isola è l’unica regione italiana priva di metano, e quindi qualunque tipo di produzione paga un prezzo maggiorato dovendo utilizzare il petrolio. Fino a poco tempo fa Alcoa godeva di un regime tariffario agevolato, che però è stato considerato aiuto di Stato dall’Unione Europea con conseguente multa di 300 milioni di euro. Al momento i timori dei dirigenti Alcoa stanno nel fatto che da Bruxelles non è arrivato il nulla osta alla proposta del governo italiano per avere sconti sul prezzo dell’energia. Di qui il fallimento dell’ultimo negoziato e la delusione per gli operai e le loro famiglie.
Le prese di posizione negli ultimi tempi sono state autorevoli. Prima tra tutte quella del Santo Padre, che nell’Angelus domenicale ha chiesto ad imprenditori e politici di non far ricadere sui dipendenti i costi della crisi. Poi il governo regionale e quello nazionale che hanno chiesto ad Alcoa di attendere il pronunciamento della Commissione europea prima di chiedere gli stabilimenti di Portovesme e di Fusina, in Veneto. Anche il vescovo di Iglesias, mons. Gianpaolo Zedda, ha chiesto di fare tutte le valutazioni del caso prima di prendere qualunque decisione. Secondo il presule occorre soprattutto tenere a mente che dietro questa vicenda ci sono famiglie, uomini e donne di un territorio che ha già pagato per le crisi degli anni passati. Sulla stessa linea anche il responsabile diocesano della pastorale del lavoro, don Salvatore Benizzi: «Purtroppo siamo abituati a situazioni del genere. Da decenni qui scontiamo le difficoltà dell’economia. Abbiamo provato come diocesi ad attivare progetti di sostegno come microcredito e prestito della speranza per aiutare chi vive in stato di disagio, ma non potremmo certo sostenere l’uscita dal lavoro di centinaia di operai».
Secondo i sindacati i problemi sono molteplici, sia dal punto di vista ambientale – la zona è oramai compromessa con discariche e veleni sul terreno, che minano la qualità della vita degli abitanti di Portoscuso e della frazione di Paringianu – che sociale. Nel polo industriale del Sulcis-Iglesiente almeno il 65% degli occupati ha perso il lavoro negli ultimi anni. Su circa 6mila addetti poco più di duemila sono ancora in attività, e quasi tutti legati ad Alcoa. Questo – dicono i sindacati – dà l’idea del deserto occupazionale che verrebbe a crearsi nel Sulcis qualora venisse chiuso l’impianto di Portovesme, dato che gli altri settori produttivi rivestono ruoli piuttosto marginali nell’economia della zona. Ecco il perché della lotta forte e decisa degli operai, delle loro famiglie, di amministratori locali e regionali, assieme alla Chiesa diocesana, per scongiurare quella che potrebbe essere una vera iattura per il Sulcis.
Il volto della speranza
Nel bel mezzo di una situazione tutt’altro che rosea, però, c’è chi non si scoraggia. È il caso di Pierangelo e Annamaria Froldi. I due hanno iniziato il loro percorso comune a Carloforte, sull’isola di San Pietro, in Sardegna, nell’estate del 1982. Hanno seguito la spiritualità del Movimento dei focolari, lavorato in parrocchia, ed oggi fanno parte del gruppo di Famiglie nuove di Iglesias, cittadina dove risiedono. Sposati dal 1992, hanno tre figlie – Chiara, Francesca e Daniela – e da qualche mese è con loro anche Messeret, una bimba di 18 mesi, adottata in Etiopia dopo un percorso lungo e pieno di ostacoli. Nulla di strano: una famiglia numerosa, quella non certamente aiutata dalla politica italiana, decide di adottare una bambina, non per solitudine o perché madre natura impedisce di procreare, ma perché il desiderio di maternità e di paternità non sfuma, né tanto meno si assopisce col tempo. La particolarità è che Pierangelo, 44enne, è uno di quei duemila lavoratori che stanno seriamente rischiando di perdere il lavoro all’Alcoa.
Messeret è diventata una luce nel buio della crisi industriale sarda perché, nonostante l’incertezza del futuro, la famiglia ha deciso di continuare a credere nella vita. «Sono giorni difficili quelli che stiamo vivendo, perché quando sono entrato in azienda non avrei mai pensato di arrivare a questo punto. Sono stati realizzati utili incredibili qui, il mercato c’è ed ha sempre premiato Alcoa, grazie all’impegno dei lavoratori di questo stabilimento. Io stesso ho messo passione e dedicato tanto tempo, sottraendolo agli affetti per far crescere la fabbrica. Siamo stati a Roma dove pensavamo di avere quelle risposte che ci avrebbero dato speranza, ora però non è così. Tanti saranno per strada, io probabilmente riuscirò a portare il pane a casa con un altro lavoro. La famiglia numerosa non è un problema né tanto meno la presenza di Messy è un aggravio o un peso. Anzi, il suo sorriso è davvero un toccasana per le ferite legate al lavoro».
Annamaria, forte di carattere, non si tira indietro di fronte al lavoro di casa con tre figlie. «C’è un’esile speranza per il lavoro di mio marito, e l’auspicio è che si arrivi ad una soluzione positiva. Non posso però non pensare a chi perso questo lavoro e non ne avrà un altro, al cinquantenne che sarà per strada, per esempio. La nostra è una famiglia unita che crede nella vita e ha voglia di continuare a crescere, nella consapevolezza che dietro ad ogni situazione c’è un disegno divino. Abbiamo adottato Messy mettendo in gioco tutto, noi stessi, le incomprensioni di alcune persone, gli aggravi economici. Il desiderio però di dare una possibilità ad una bambina è stato più forte di tutto, ed è superiore anche a quanto ci sta accadendo oggi».