La Luna ed il Mascalzone

“Colui che va per mare per divertimento, andrebbe all’inferno per passatempo ” scrisse un navigatore dell’Ottocento, commentando le prime gare tra quei matti che rischiavano la pelle, in barca a vela, per qualche trofeo. La vela era stata per millenni una roba seria. Chi andava per mare non lo faceva certo per diporto: si navigava per trafficare, combattere, conquistare, scoprire, trasportare. La storia della vela coincide con quella della navigazione, almeno fino all’uso del motore: nei secoli si sono succeduti viaggi che hanno segnato il cammino dell’umanità, pagine stupende, scoperte inattese, talvolta pagine oscure, come la tratta degli schiavi neri dall’Africa. È solo nel Seicento che, nei Paesi Bassi, si cominciano a fabbricare yacht piccoli e raffinati per consentire a qualche ricco stravagante commerciante di andarsene fra le onde per diporto, ovvero senza esserne obbligato. Ma furono gli inglesi a scoprire diffondere il costosissimo e blasonato hobby della vela, organizzando le prime regate. La coppa in palio passava fra le mani degli yachtsmen inglesi, finché, nel 1851, una goletta americana, la America, ammessa per compassione, portò inaspettatamente il trofeo di là dell’Atlantico. Da allora esso è sempre rimasto negli Usa. Solo gli australiani prima ed i neozelandesi poi, sono riusciti, dopo oltre 130 anni, a strappare la coppa agli americani, obbligando gli sfidanti, come spetta al vincitore, a confrontarsi a casa loro (se quest’anno vincono gli svizzeri dove si gareggerà?), nella tana del vento australe del golfo di Hauraki, davanti ad Auckland. Nel paese dei kiwi la vela è popolare quanto da noi il pallone: una barca ogni 4 abitanti, in pratica una per famiglia. Nel frattempo la vela è diventata ovunque una disciplina relativamente popolare. Molti tirano la notte per vedere le regate. Molti di essi sono dei fedelissimi, ed hanno passato in bianco le notti delle ultime edizioni, a cominciare da quella dell’83, con Azzurra, il primo scafo italiano ad accettare la grande sfida. E che magari con quel nome hanno pure battezzato la figlia. Oggi anche lo spettacolo, come le barche, si è fatto sempre più tecnologico, con le immagini virtuali che rimpallano quelle dal vivo. Le imbarcazioni della Coppa America sono diventate delle autentiche formula uno del mare. Una schiera di ingegneri e architetti navali hanno fatto lavorare per anni decine di industrie di ogni parte del mondo per realizzare le linee d’acqua degli scafi, i profili delle vele, ed ogni altro particolare. Ogni pezzo di una barca deve essere fabbricato nel paese che rappresenta, ad eccezione delle vele, prodotte da un’unica azienda degli Usa, tecnologicamente superiore a tutte, per non dare agli americani un indebito vantaggio. Tutto questo giustifica i costi enormi dell’impresa: i sindacati, così si chiamano i consorzi dei nove equipaggi iscritti alla Coppa, hanno letteralmente… buttato in mare 550 milioni di euro. Nonostante oggi le differenze fra le imbarcazioni non diano più vantaggio che di un metro al chilometro, lo spionaggio rimane inevitabile e le barche vengono sorvegliate notte e giorno. Ma il fascino in più, che la vela sa offrire, viene dal gareggiare non su una pista tracciata dall’uomo, ma in uno specchio di mare dove le onde fanno il loro comodo ed il vento soffia bizzarro. La tecnologia deve inchinarsi alla fantasia della natura: il fattore umano, le scelte delle vele, dei bordi da offrire al vento, delle manovre, assume enorme valore. Gli errori si pagano, il coraggio è valorizzato, regatare diventa un arte. E questo non riguarda solo lo skipper, il timoniere, ma l’intero equipaggio: il cosiddetto pozzetto, lo spazio in cui lavorano i sedici marinai, è un piccolo universo di uomini con differenti compiti che devono armonizzarsi, lavorare di concerto nella più grande unità e sintonia, con un gioco di squadra per eccellenza, visto che sono davvero “sulla stessa barca”, fuori da ogni metafora. Il lavoro di équipe richiede anni di allenamento l’uno accanto all’altro, e si fonda su una competenza tecnica e su una preparazione atletica individuale fuori dal comune. Per questo il “mercato” dei velisti è selvaggio: gli svizzeri hanno saputo strappare i migliori uomini dalla imbarcazione vincente della Nuova Zelanda, a suon di miliardi. Grazie allo straordinario talento di questa gente, ai nostri occhi sonnecchianti può risultare persino normale che una barca solchi le acque di bolina, cioè controvento, come se niente fosse: ma solo loro sanno come permettere alle vele tese di “succhiare” il vento, come fossero ali d’aeroplano. Chissà che forse, anche farsi intrigare dalle immagini televisive dalla Nuova Zelanda, non faccia nascere l’occasione per affacciarsi davvero a questa disciplina. Un Optimist, uno scafo di 2 metri e rotti, che costa poco più di un paio di sci, è già perfetto per imparare e provare quello che scriveva Antoine de Saint-Exupéry, l’autore del Piccolo principe: “Se vuoi costruire una nave, non radunare uomini per raccogliere il legno e distribuire i compiti, ma insegna loro la nostalgia del mare ampio ed infinito”.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons