La luce di Ostia
Il porto dell'antica Roma, meta ancora oggi di numerosi turisti, testimonianza di una civiltà ricca di vita.
Ostia Antica, piccola Roma alla foce del Tevere. Con l’immaginazione rivedo la gente cosmopolita che l’animava in epoche lontane. Quella dei rioni popolari formicolanti di attività, con caseggiati giganteschi e sovraffollati, e quella dei complessi signorili e appartati, o i pochi fortunati proprietari di dimore lussuose, vere ville in città.
Ostia degli armatori e dei mercanti, dei barcaioli e dei pescivendoli, dei facchini e dei trasportatori di sale, dei tavernieri e dei giocatori d’azzardo, degli erbivendoli e dei macellai, dei vasai e dei vetrai, dei muratori e dei tagliapietre, dei lavandai e dei tintori,dei funzionali imperiali e dei vigili, dei misuratori di grano e dei tornai, dei pantomimi e dei profumieri, dei medici e delle levatrici, degli atleti e dei gladiatori, dei lenoni e delle prostitute, dei ricchi e dei plebei, dei liberi e degli schiavi.
Ora un mare d’erba invade piazze e strade fiancheggiate, un tempo, da portici a perdita d’occhio e da facciate color rosso mattone, che la assomigliavano a certe cittadine medievali della valle padana; ora è un luogo di pace e di silenzio.
Sede di pagani, cristiani ed ebrei, di religioni tradizionali e nuove, come di culti meravigliosi e strani importati dall’Oriente; di templi imponenti e di umili cappelle ricavate in qualche angolo riposto di un condominio, testimonianza dell’ansia di assoluto che è in ogni uomo.
E accanto alla città dei vivi, quella dei morti, con l’intatta necropoli di Isola Sacra: dove il mausoleo della persona agiata sorge al limitare del "campo dei poveri", sepolture indicate nient’altro che da mezze anfore emergenti da terra.
«Ode pausilypos», qui è la cessazione di ogni dolore, si legge nell’iscrizione greca davanti alla soglia di una delle tante tombe, in un mosaico che raffigura in senso evidentemente simbolico due navi dirette verso il faro del porto.
Ostia protesa verso il mare e lambita da quel Tevere che nel volger dei secoli ha cambiato più volte il suo corso, fino a erodere una parte di essa. Là dove fiume e mare si fondevano, sull’arenile lontano da ogni trambusto, si poteva anche filosofeggiare indisturbati e il cristiano Ottavio convertire il pagano Cecilio, secondo il celebre dialogo di Minucio Felice.
Ostia «amenissima», al dire dello stesso Minucio, ridotta nell’alto Medioevo a un fantasma del suo passato splendore, misero villaggio sperduto fra gli acquitrini e le nebbie malariche causati dall’insabbiamento del litorale.
Sì, perché non c’è stato un cataclisma a fermarla nel tempo, come Pompei: doveva conoscere invece – a partire dalla seconda metà del III secolo d.C. – un lento e forse più triste declino. E nel generale squallore, veder disfarsi le sue piazze, i suoi portici, le sue terme, le sue botteghe e i suoi magazzini, che avevano incamerato ogni genere di derrate e di mercanzie, necessarie alla insaziabile Roma.
Oggi, fra tanta gente nota e ignota che ha fatto la storia ostiense, soltanto due figure mi paion vive. Un figlio e una madre, stranieri e qui solo di passaggio, ma che restano legati a questa città più di chi in essa trascorse una vita intera. È stato nell’ottobre del 387 dell’era cristiana.
«Eravamo appoggiati ad una finestra dalla quale si vedeva un giardino interno alla casa che ci ospitava, là ad Ostia Tiberina, dove dopo le fatiche del lungo viaggio, lontani dalle folle, riprendevamo le forze per imbarcarci…». Qui Agostino e Monica, in unità perfetta, hanno attinto per un istante Dio. E quella luce ha attraversato il tramonto di Ostia.