La luce di Canaletto
Mai una tenebra, una oscurità, nella pittura di Antonio Canal, detto Canaletto. Osservare le sue Vedute e i suoi Capricci dà una gioia difficile da dimenticare. È la luce che si espande limpida a diffondere serenità anche oggi a noi che guardiamo, nel museo di Palazzo Braschi a Roma, i suoi 42 dipinti, 9 disegni, 16 documenti messi insieme in una dello mostre più vaste dedicate all’artista.
Ci piace la sua luce, che è quella del Settecento illuminista, se si vuole, ma è soprattutto quella della sua città, Venezia, di una civiltà destinata a non morire mai, come crede fermamente il pittore. E con lui il coetaneo Giambattista Tiepolo, che riempie di affreschi le regge e i palazzi d’Europa, con una freschezza immensa. La stessa di Canaletto. Questi due geni la freschezza ce l’hanno dentro, nell’anima, ed è ciò che seduce noi come seduceva l’Europa, l’Inghilterra in particolare, dove il nostro amò soggiornare per alcuni anni (guadagnando molto, da buon veneziano).
Venezia è la città della luce. Eccola in piazza San Marco vista da diverse angolazioni. Crea un microcosmo di figurine, slanciate, dipinte in punta di pennello. Un mondo di brusii, chiacchiere, risatine, traffici: la vita, insomma, una musica sussurrata come una sinfonia di Vivaldi che si sparge per la basilica, il Palazzo Ducale, i portici, la piazza, il mare levigato d’estate e arricciato in primavera. Il sole c’è, anche se non si vede. Ma la sua luce riempie le cose e le persone del suo splendore.
Gli ammiratori se ne accorgevano ed erano estasiati, perchè Canaletto dipingeva il sole senza farlo vedere. Ecco il ponte di Rialto, le gondole che vanno e vengono, strisciano sul canale verde, le ombre sui palazzi nell’ora del tardo meriggio, il brulicare del commercio visto da una lente esatta, matematica.
Canaletto osservava sul posto, disegnava, poi riproduceva sulla tela con un equilibrio razionale preciso. Il miracolo sta nel fatto che la veduta non sia una “fotografia” per quanto perfetta, ma una “poesia”. E’ il sentimento lirico che traspare sia dai Capricci giovanili del pittore sceso a Roma e sedotto dalle antichità e poi dell’artista maturo che osserva Venezia con uno sguardo innamorato.
Il colore che egli adopera è infatti quello dell’amore. Ci sono le tinte estive, raggianti, e quelle dell’aurora – forse le più belle – dove il rosa delicato incanta il cielo, il Palazzo Ducale visto dal molo di San Marco, la chiesa di san Giorgio Maggiore, candida, ed irraggia nella splendida ouverture di piazza San Marco vista frontalmente: uno squillo azzurro di prima mattina (1740 circa, Parigi, Musée Jacquemart-André).
È una festa. Come l’interno della basilica il Venerdì santo (1744), luce dorata sull’oro – un paradiso aereo -, o lo spettacolare Ritorno del Bucintoro (1729 circa, Mosca, Museo delle Belle Arti), un tripudio di colori, di lusso, di vita sotto il cielo grande che abbraccia il mare e fa lievitare ogni cosa nella luce, come fosse una magia.
È una magia, la pittura di Canaletto, che vede come un prodigio la sua città. E non solo questa. Le vedute “inglesi” la ripropongono, anche se con minor ardore e maggiore compostezza. Siamo in Inghilterra, dopo tutto. Ma la luce, il carisma del pittore, rimangono il punto fermo. È quella che gli impedisce di vedere la decadenza della sua città, che egli continua a cantare con gioia sino alla fine. Ottimista perché una civiltà di bellezza è immortale. Vedendo San Giorgio Maggiore ( 1732), la primavera che brilla in bianchi, rosa, azzurri di pastello sopra le onde scosse dalla brezza, ne abbiamo la conferma. Il miracolo della poesia continua. Perciò questa mostra è imperdibile.
(catalogo Silvana Editoriale)