La logica sacrificale del sistema
La scelta politica determinante di “sfruttare l’imperfezione umana” rivela una concezione riduttiva della persona, un radicale pessimismo che può solo tollerare la riduzione di un danno comunque inevitabile. Ma nell’incentivare l’offerta di una pratica, come l’azzardo, che provoca l’autodistruzione dei più fragili si rivela una trama nascosta della nostra modernità.
Ne parlo con Massimo Borghesi, docente di filosofia morale presso l’Università di Perugia, che nei suoi scritti ha analizzato il rapporto tra la secolarizzazione e il nichilismo, perché sembra evidente che dalla percezione della condizione ferita e imperfetta dell’essere umano si può giungere alla necessità del limite verso ogni potere che distrugge (compito proprio della politica) o, al contrario, intraprendere la scorciatoia verso il cedimento totale all’attuale forza prevalente e pervasiva della finanza.
D: Andiamo diritti alla questione: la percezione della condizione umana come un «legno storto» conduce alla consapevolezza che non sia possibile cambiare la realtà ma solo ridurre e riparare i danni?
R: Il «legno storto», espressione che troviamo in Kant, presuppone, certo, che l’uomo non possa, per vie meramente politiche, mutare la propria natura incline alle tendenze egoistiche. Il problema attuale non è però quello del contenimento di tali tendenze, ma della loro incentivazione. Il neocapitalismo che si è imposto dopo la caduta del comunismo ha perso quel limite etico che lo contraddistingueva nel periodo pre1989. Il mix di affarismo senza scrupoli e godimento senza limiti è il modello antropologico che si è imposto, il modello cinico-erotico rappresentato in The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese.
È chiaro che un simile paradigma non ha alcun intento di limitare il «legno storto». Al contrario, fa leva su di esso per trarne il profitto massimo in termini di rendimento. Che il risultato sia quello di emarginare milioni di uomini e di spremerne altri, come limoni, per poi gettarli via, è una cosa che al sistema non importa affatto.
D: Ma non è compito della politica contenere il potere (economico) perché non distrugga l’uomo e il legame sociale?
R: Certamente. Il problema è che il post 1989 segna il congedo dalla politica e il primato dell’economia. Era, questa, la profezia di Franzis Fukuyama nel suo celebre volume La fine della storia e l’ultimo uomo, edito nel 1992.
La globalizzazione ha significato, in Occidente, la neutralizzazione del potere politico a favore di quello economico. Ha imposto, per reggere la concorrenza, la formazione di macro-realtà, come l’Europa, e, con ciò, il declino degli Stati nazionali. La politica ha il suo primato fintantoché perdura il confronto Est-Ovest. Per dirla con Carl Schmitt: fintantoché l’Occidente ha il suo “nemico”. Dopodiché l’economia prende il sopravvento.
Un’economia che, differentemente da quella precedente, non è più vincolata all’idea del Welfare State, non ha più bisogno di tutelare i settori sociali. Non più costretta a legittimarsi di fronte all’avversario, esterno e interno (il comunismo), può procedere senza freni separandosi radicalmente dal lavoro e concentrandosi sul mercato finanziario reso possibile dal Web e dalla rete elettronica mondiale.
Di fronte a questo panorama una politica incerta, in forte crisi ideale, in cui la forma-partito su cui si è fondata la democrazia tradizionale appare in fase terminale, appare di debolezza cronica. Aumentata dal fatto che, nel venir meno dell’autonomia della banca centrale priva di leva monetaria, i margini di intervento si sono ridotti all’osso.
D: Che lettura dare di questa particolare pervasività della diffusione legalizzata del gioco d’azzardo in Italia?
R: Il gioco d’azzardo è, in situazione di de pauperizzazione crescente, la grande illusione dei poveri, la speranza del colpo fortunato che consenta di svoltare, di trarsi fuori dall’ossessione della fine del mese. Gioco d’azzardo e crisi sociale procedono insieme. Che il sogno possa poi diventare malattia, dipendenza, ossessione, è nella logica delle cose.
Anch’io mi sorprendo nel vedere ogni giorno, nel tabaccaio vicino casa, decine di persone di condizione non certo agiata che, in fila indiana, comprano biglietti uno dietro l’altro, giocano alle slot-machine, spendendo in continuazione. Si crea un sistema di dipendenza che tutti, dallo Stato ai gestori, conoscono bene ma che si guardano bene dall’evidenziare.
Il problema è che siamo come impotenti, ricattati, di fronte alla giustificazione economica che viene sempre addotta: lo Stato ha bisogno delle risorse e il gioco, in ciò, non è diverso dalle sigarette o dagli alcolici sui quali gravano, egualmente,
le tasse utili per altri scopi. È lo stesso principio che porta alcuni, oggi, ad auspicare la legalizzazione delle droghe leggere.
In tal modo, si dice, lo Stato sottrarrebbe alle mafie il controllo della droga e, in secondo luogo, dalla tassazione legale del commercio trarrebbe cospicui guadagni da destinare ai bisogni sociali. È sempre la stessa idea: dallo sterco
del diavolo dovrebbero uscire diamanti. Siamo condotti a ciò da una logica economica che non si ferma di fronte a nulla, che in tutto vede occasione di guadagno e che non si cura delle conseguenze.
Il nostro sistema è guidato da una “logica sacrificale” per la quale il benessere richiede le sue vittime, i suoi drogati. Che questi siano l’esito dell’hashish, della cocaina, o del gioco d’azzardo, poco importa. L’importante è la rendita, il rendimento. Le mani sporche potranno poi lavarsi mostrando come quei soldi, nati sulla pelle e le illusioni di molti, siano serviti a ripianare l’inesauribile deficit dell’economia.
Da Vite in gioco, oltre la slot economia, a cura di Carlo Cefaloni (Città Nuova, 2014)