La lingua italiana al tempo di Twitter
Per twittare ci vuole un hashtag. Lo sanno bene gli utenti di Twitter, ma probabilmente qualcun altro, di fronte a tanti neologismi, si starà chiedendo che lingua parliamo oggi. Proprio in questa settimana che volge a termine, mentre a Milano si svolgeva il Social Media Week, evento dedicato al web, all’innovazione e alle nuove tecnologie, che sono oggi le fonti principali di neologismi, soprattutto prestati dall’inglese, capaci di entrare nell’uso comune con straordinaria facilità, il caso ha voluto che l’Accademia della Crusca tenesse a Firenze il convegno “La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi”, affrontando una questione spinosa che preoccupa molto i puristi.
Diverso approccio al tema è stato invece quello proposto dal workshop Brevitas (un anglicismo per un titolo in latino!) all’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, che si è svolto nelle giornate del 25 e 26 febbraio e che ha visto, fra i numerosi partecipanti, lo storico della lingua italiana Pietro Trifone impegnato in un’analisi dell’italiano “twitterario”, di una scrittura cioè obbligatoriamente costretta nel confine dei 140 caratteri messi a disposizione dall’applicazione: una riflessione sulla scrittura al tempo dei social network che grazie alla sua brevità si sta rivelando molto efficace e con un impatto come mai si era sperimentato finora. Scritture brevi, dunque, come il nome del progetto ideato nel 2010 da Francesca Chiusaroli, docente di linguistica all’Università di Macerata, insieme a Fabio Massimo Zanzotto dell’Università di Roma “Tor Vergata”, e anche curatrice, insieme a Marina Ciccarini, del workshop accademico.
Professoressa Chiusaroli, cos’è “Scritture Brevi”?
«Nasce come progetto universitario, dopodiché tenta la via social con la creazione del blog “Scritture Brevi” (www.scritturebrevi.it) e dell’hashtag #scritturebrevi, intorno al quale si raccolgono produzioni testuali di vari generi di scrittura. È un contenitore di tante manifestazioni grafiche, che vanno dai segni di punteggiatura ai testi più complessi, come i tweet, gli aforismi, i testi brevi di ogni epoca, che sono all’origine delle nostre riflessioni sulla lingua, sul suo stato attuale, sull’uso delle scritture, in particolare attraverso il mezzo digitale».
«Fino all’Ottocento le comunicazioni a distanza erano solo epistolari e la posta lasciava il tempo di riflettere sul messaggio da scrivere. Questo non è più possibile: oggi il telefono e Internet ci costringono a tempi di risposta rapidissimi. La brevitas, nonché la velocitas, quali effetti hanno sul nostro linguaggio?».
«Molti le vedono come un pericolo, ma è una condizione ormai irrinunciabile, e credo che nessuno sarebbe disposto a tornare indietro. Le scritture brevi sono sempre esistite e noi vogliamo appunto cercare il lato positivo della brevitas. Facendo un confronto con il passato, scopriamo che i meccanismi dell’economia linguistica sono sempre gli stessi, sono meccanismi tipici dell’uomo, e riteniamo che questo sia un lato positivo».
Le nuove tecnologie e Internet confezionano di continuo neologismi che entrano con facilità nel nostro linguaggio quotidiano, ma che molto spesso sono anglicismi: da “computer”, “mouse”, “monitor”, fino a “social media”, “emoticon”, “hashtag”, ma anche verbi come “googlare”, “twittare” e il neonato “whatsappare”. Non sono tempi felici per i puristi della lingua italiana…
«Ora non c’è più un atteggiamento in assoluto di rifiuto. Del resto, la lingua italiana ha sempre manifestato tendenze all’arricchimento a partire da influssi provenienti da lingue straniere. È chiaro che oggi l’inglese sia predominante, ponendosi come lingua della mediazione internazionale, ma quando il termine italiano c’è, bisognerebbe usarlo. A volte dei termini nascono come uno scherzo, come whatsappare, però di fatto poi vediamo che queste parole piano piano entrano nei dizionari; e se sono accolte nei dizionari, vuol dire che l’uso le ha già digerite e introiettate da molto tempo».
Vediamo che la politica, per stare al passo con i tempi, oggi fa molto uso dei social network. Secondo lei, la democrazia può passare anche attraverso il cancelletto dell'hashtag?
«L’hashtag oggi è il simbolo più importante della nuova comunicazione, tanto è vero che si sta propagando al di fuori di Twitter: è stato infatti adottato da Instagram, da Facebook e anche dalla scrittura non digitale. Capita spesso, ad esempio, di vedere dei manifesti elettorali o pubblicitari con hashtag che poi in realtà non hanno un uso concreto. È un potente aggregatore sociale e bisogna stare attenti nell’usarlo».
I nostri messaggi testuali sono sempre più ricchi di “faccine”, di una componente cioè non verbale. In questi giorni Apple ha annunciato che la famiglia delle “emoji” si arricchirà di nuove icone che tengono conto delle diverse etnie e anche degli orientamenti sessuali. Si sta avverando la profezia di Leopardi che annotava nello Zibaldone: «Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica»?
«Sì, in pratica, torna la moda dei pittogrammi, che sono sempre esistiti. Oggi ci sono le emoji, questi tipi di scrittura che condensano come pochi dei significati emotivi, che sono poi la grande debolezza della scrittura tradizionale: quando non ci si capisce per scritto, spesso è perché non si capisce il tono, e questo crea un problema di comunicazione. Effettivamente le nuove scritture digitali fanno molto raramente a meno di uno smile. Quando si scrive un tweet, che ha a disposizione solo 140 caratteri, è bene lasciarne due o tre per mettere il sorrisino, perché questo agevola la comunicazione pacifica in rete».