La “lingua di fuoco” della poesia

Per il sommo poeta la parola è portatrice della profondità emotiva. È la tesi di Giacomo Gambale nel libro edito da Città Nuova. In versione integrale la recensione di Bianca Garavelli, studiosa di Dante, per "Avvenire"
3111801 La lingua di fuoco
Di Dante si è studiato di tutto e di più, ma non si finisce mai. Gli aspetti, le prospettive e le angolazioni da cui guardare la sua immensa opera sono molteplici e offrono agli studiosi un campo sterminatio di approcci. Non ultimo il problema del linguaggio. Ma non ci riferiamo all'analisi della lingua da lui utilizzata, o almeno non solo, bensì alle implicazioni  teologiche, filosofiche, retoriche e politiche che ritroviamo nel libro La lingua di fuoco, Città Nuova 2012, dello studioso Giacomo Gambale. Il 28 luglio la studiosa di Dante Bianca Garavelli ha recensito il libro su Avvenire. Di seguito la versione integrale dell'articolo.

«Dante poeta del linguaggio? Certamente, ma non solo. In questo corposo saggio, il giovane studioso dell'università di Salerno Giacomo Gambale illustra in modo piacevole (non solo per specialisti) gli aspetti del pensiero dantesco in merito alla parola, segno comunicativo che distingue l'umanità dal mondo animale. Tenendo conto però con assoluta competenza dei fondamenti culturali e degli aspetti poetici, la straordinaria visività, che fanno dell'opera di Dante, specialmente della Commedia, un caso unico nella storia letteraria. Quindi, non propriamente di una filosofia del linguaggio dantesca si può parlare, ma di un preciso pensiero del poeta in materia di linguaggio, il "pensiero forte" lo definisce Gambale, fondato su una concezione in cui teologia, retorica, politica tendono a fondersi.


«L'immagine della "lingua di fuoco", presente nella Commedia, testimonia bene questa base complessa del pensiero della poesia, in cui "argomentazioni e immagini si confondono" con immediata efficacia: da una fiamma che si muove come una lingua parla Ulisse all'Inferno, e i suoi ingannevoli consigli sono un esempio del pericolo insito nella parola. Ma ci sono altri "fuochi" che illuminano e non danneggiano: sono le anime beate di Adamo e dei teologi e filosofi, fonti di sapienza e virtù, che popolano il Paradiso. Ma hanno il loro precursore in Virgilio, capace di illuminare con la fiamma della sua poesia il cammino spirituale dei poeti che lo seguono (come appare nell'episodIo di Stazio nel Purgatorio), pur senza il sostegno della fede. Dante così dà vigore visivo a un concetto teologico, molto importante nell'immaginario medievale a partire dai commenti di Giovanni Crisostomo: il legame tra fuoco divino e linguaggio umano nel racconto della Pentecoste, negli Atti degli Apostoli.

 

«Con l'effusione dello Spirito Santo, gli Apostoli ricevono il dono di parlare in "diverse lingue", ma sempre continuando a comprendersi. È evidente la contrapposizione con un altro celebre episodio delle Sacre Scritture: la confusione delle lingue provocata dalla sfida alle leggi divine della torre di Babele. In direzione antibabelica procede infatti Dante, guidando i suoi lettori verso il Paradiso, ma sempre attraverso personaggi che colpiscono l'immaginazione: così il gigante Nembrot, re costruttore della torre malvagia, col suo linguaggio disarticolato rappresenta i danni della superbia, mentre un altro sovrano, Giustiniano, mostra l'annonia di lingue diverse raggiunta nella lode di Dio. Un'idea del linguaggio come espressione della spiritualità, del "sentimento di chi lo usa, anche quando dialoga con il divino, che appare per la prima volta nella Vita Nuova: qui è il rapporto con Beatrice, la sua presenza o la sua assenza, a impostare il linguaggio nel segno del dolore o della lode, che diventa così il più alto atto linguistico, nel "riconoscimento della propria creaturalità", il più nobile che l'umanità possa compiere».

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