La Libia del Memorandum
Il 2 novembre scorso si è tacitamente rinnovato per tre anni il cosiddetto “Memorandum italo-libico” sui migranti, cioè l’accordo del 2017 fra il governo italiano (rappresentato allora dal ministro Minniti e dal premier Gentiloni) e il capo del Gna libico (il cosiddetto “Governo di accordo nazionale”), Fayez al Sarraj.
In questi giorni il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio ha assicurato che sta lavorando per migliorare l’accordo, soprattutto «nella parte riguardante le condizioni dei Centri di detenzione» libici per i migranti illegali. Naturalmente le proposte, per ora solo annunciate, dovranno passare al vaglio di una commissione bilaterale italo-libica. Il governo di Tripoli si è detto disponibile ad esaminare le proposte italiane, quando verranno comunicate. Difficile comunque immaginare che qualche ritocco apportato nei tempi lunghi della burocrazia diplomatica possa modificare le orribili condizioni nelle quali sono oggi detenute (ma anche spesso ricattate, vendute, torturate, stuprate, abusate) migliaia di persone. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha documentato qualche mese fa la presenza diffusa in Libia di 641.398 migranti, provenienti da una quarantina di Paesi (65% sub-sahariani, 29% nord-africani, 6% asiatici o mediorientali). Tra loro, circa il 13% sono donne e almeno il 9-10% minori (di cui il 35% non accompagnati).
Eppure nonostante questi numeri impressionanti, non è questo il centro del problema libico. I migranti sono purtroppo solo un fatto collaterale che si inserisce nel complicato caos della guerra. Un caos che bisogna comprendere e cercare di sbrogliare se si vuole in qualche modo affrontare un accordo diplomatico che non finisca per essere un’operazione di pura facciata nei confronti dell’opinione pubblica italiana. E sembra che tutto sommato ai libici non dispiacerebbe affatto se l’Italia non si preoccupasse solo di contare i migranti in arrivo a Lampedusa, di rifornire la Guardia costiera libica o di difendere le strutture petrolifere dell’Eni, ma si occupasse anche e soprattutto di mettere in atto una mediazione internazionale per aiutare il Paese ad uscire dal caos e dai giochi di potere.
Tutto nasce in un certo modo dalla “Operazione Unified Protector”, del 2011, per abbattere il regime del rais libico Gheddafi. L’azione militare a guida Nato e approvata dall’Onu fu caldeggiata in particolar modo dalla Francia di Sarkozy per fini, oggi a ben vedere, tutt’altro che democratici, anzi piuttosto petroliferi (leggi Total). L’intervento militare in poco più di 6 mesi non solo non risolse nulla, ma mise le premesse per il caos attuale.
Oggi in Libia non ci sono solo i due schieramenti che sostengono Fayez al Sarraj a Tripoli (e poco oltre) e il generale Khalifa Haftar a Bengasi (e nella maggior parte del Paese), ma ci sono soprattutto 300 milizie, con 15 mila miliziani, e 140 tribù che si alleano e si scontrano o che semplicemente difendono i propri interessi. Le milizie condizionano praticamente ogni aspetto della vita dei libici: controllano le banche e il denaro, proteggono il mercato nero e i pozzi di petrolio. Ma anche concedono di fatto visti e documenti, orientano i ministeri e tengono in mano infrastrutture e commerci, insomma gestiscono i governi. Ovviamente guidano e proteggono anche molti traffici illegali, compreso quello dei migranti, accordandosi con scafisti e miliziani della Guardia costiera (quella a cui l’Italia regala le motovedette).
Una recente inchiesta di Nello Scavo per il quotidiano Avvenire ha documentato ad esempio che il boss del traffico di migranti noto come al Bija (Abd al Rahman al Milad), nonché comandante della Guardia costiera, fedele a Fayez al Sarraj, avrebbe addirittura partecipato in Italia ad incontri ufficiali tra vertici italiani e libici in vista degli accordi per il Memorandum.
E poi ci sono le alleanze esterne, quelle che contano e che forniscono armi e denaro ai contendenti. Così, se il governo di Tripoli, riconosciuto dall’Onu e dall’Italia, si avvale in qualche modo del sostegno dei Fratelli musulmani e dei mezzi militari forniti dalla Turchia di Erdogan e dal Qatar, quello di Bengasi può contare esplicitamente su dollari e armi provenienti da Sauditi, Emiratini ed Egiziani; e occultamente, ma neppure troppo, su francesi e russi. Aggiungendo che in Libia sono presenti in qualche modo anche istruttori e osservatori militari: italiani in Tripolitania, francesi in Cirenaica, statunitensi e inglesi nella Sirte e al sud. E senza contare le mire espansionistiche del Daesh, che, per quanto represse nel 2016, starebbero riorganizzandosi a sud, nel deserto.