La libertà di espressione tra diritto ed etica

Il massacro dei giornalisti di Charlie Hebdo pone, drammaticamente, la questione dei limiti alla libertà di espressione. Limiti che spesso non sono di tipo legislativo, ma dettati dai valori in cui si crede e dal rispetto per gli altri. Una riflessione
Proteste in Cecenia per le vignette di Charlie Hebdo

Il massacro dei giornalisti di Charlie Hebdo pone, drammaticamente, la questione dei limiti alla libertà di espressione. In apparenza, ci sono due risposte: la libertà di espressione è un diritto assoluto, che non può essere limitato. Seconda risposta: sì, ci devono essere dei limiti, che non si possono oltrepassare senza conseguenze.

In realtà questo è solo il primo livello della riflessione, quello giuridico. La domanda, correttamente posta su questo piano è: può la legge di uno Stato porre limiti alla libertà di espressione? Quali?

In Francia, patria dell’attentato e delle vittime, si tende a rispondere negativamente a questa domanda: la libertà di esprimere opinioni sulle religioni e sui loro credenti è un diritto assoluto, ed i redattori e caricaturisti di Charlie Hebdo hanno il diritto di mettere nel loro giornale il contenuto che vogliono, anche se questo contenuto può offendere, e di fatto offende, il sentimento religioso ed i valori di una parte della popolazione (francese, dato che leggi nazionali si applicano solo all’interno di un determinato Paese, anche se il legislatore, cioè la classe politica, potrebbe pensare anche alle conseguenza geostrategiche e umanitarie nel porre o meno un tale limite: pensiamo alle chiese bruciate in Nigeria o alla manifestazione di massa in Cecenia, nella foto). Questo perché, in buona sostanza, la Francia è un Paese retto in modo peculiare dal principio di laicità e né le religioni né il sentimento religioso sono considerati di rilevanza pubblica.

Eppure, anche in Francia, i limiti alla libertà di espressione ci sono eccome. Ad esempio, pochi giorni dopo l’attentato a Cherlie Hebdo, il comico Dieudonné, noto per i suoi spettacoli antisemiti, è stato arrestato per avere affermato: “Io sono Charlie Koulibaly” (cioè al tempo stesso le vittime dell’assalto alla redazione e uno degli autori del massacro nel negozio ebreo di Parigi).

Anche in Italia, come in molti altri Paesi, la legge limita la libertà di espressione punendo tra l’altro la diffamazione, l’apologia di reato e il vilipendio della religione.

Il Paese che forse ha meno limiti alla libertà di espressione, diritto fermamente protetto dal Primo Emendamento alla Costituzione, sono gli Stati Uniti. Vi è addirittura ammesso, unico tra gli Stati occidentali, l’“hate speech”, il discorso di odio, odio verso una persona o un gruppo in base all’etnia, al sesso, alla religione e ad altre caratteristiche. Eppure, proprio negli Stati Uniti, tutti i maggiori quotidiani si sono rifiutati di pubblicare le vignette di Charlie Hebdo, ed hanno sbianchettato, nei loro reportage, la prima pagina della rivista che i manifestanti esponevano nelle vie di Parigi e di altre città. Perché?

Non perché lo vietava la legge, ma perché lo vietava l’etica. Nel decidere se pubblicare o meno le foto, i responsabili dei media americani non hanno pensato alle conseguenza penali, ma hanno usato un’altra serie di criteri, prettamente etici: cosa è giusto fare? Cosa è rispettoso nei confronti dei nostri lettori, e di ogni essere umano che mio lettore non è? Quali sono le conseguenze (nel mio Paese e nel mondo intero) del pubblicare e del non pubblicare? Se fossi (magari lo sono) musulmano o cattolico, il bersaglio principale delle caricature di Charlie Hebdo, mi piacerebbe che la mia fede fosse sbeffeggiata? Sono una serie di chechpoint attraverso cui passa – magari senza che ce ne rendiamo pienamente conto – il ragionamento etico, ogni volta che prendiamo una decisione.

In Italia Il fatto Quotidiano, che ha tradotto buona parte del numero di Charlie Hebdo uscito dopo l’attentato, non ha incluso alcune vignette che deridevano, in modo truce e a mio avviso per nulla umoristico, alcuni personaggi del mondo cattolico. Perché l’hanno fatto? Credo per una questione di sensibilità, cioè di etica, e non pensando al diritto penale.

Forse nella decisione dei media americani ha giocato il fatto che negli Stati Uniti vige un’etica pubblica intrisa di sentimento religioso. Il dato che le regioni e la fede fanno parte del discorso pubblico, pur in un Paese laico (retto da leggi e governi civili, non religiosi), contribuisce ad attivare sani riflessi etici. Per esempio il fatto che non tutto è permesso, giacché non io sono onnipotente, ma l’altro-da-me. Non sono e non posso credermi onnipotente, quindi ogni volta che esprimo un’opinione, tanto più se moltiplicata attraverso un mass media, mi pongo la domanda: anche se posso farlo, lo voglio fare? Voglio davvero pubblicare questa vignetta che, sì, esprime il mio pensiero, ma che so che offenderà la sensibilità di milioni di persone?

Sapendo che alcune di queste persone – non proprio a causa della mia vignetta, ma per un malessere che proprio questa mia vignetta avrà contribuito a esacerbare e magari a scatenare – uccideranno esseri umani e bruceranno luoghi di culto? La legge non me lo vieta. Ma l’etica, la legge iscritta nel mio cuore, cui liberamente aderisco, che mi è imposta da dentro e non da fuori, me lo permette?

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