La lezione di tolleranza di Giulio Giorello

È morto, forse per le conseguenze del Coronavirus di cui si era ammalato, il filosofo Giulio Giorello, uno dei maggiori pensatori italiani
Foto LaPresse - Andrea Campanelli

«Sono stato ricoverato per coronavirus il 27 marzo 2020, più precisamente alle 11.43… la mia degenza è terminata il giorno di mercoledì 17 maggio. Adesso sono a casa mia, e guardo compiaciuto i miei libri come una presenza famigliare di cui continuamente mi rallegro». Scriveva così qualche giorno fa il settantacinquenne Giulio Giorello, uno dei più importanti filosofi e pensatori italiani. Che non ha potuto godere a lungo della presenza dei libri accatastati nelle sue biblioteche. Neanche un mese dopo, il 15 giugno, è morto.  Forse per le conseguenze del Covid 19.

Pochi giorni prima, il 12 giugno, si era sposato con la sua compagna, Roberta Pelachin. «Volevamo condividere il tempo che ci restava da vivere, insieme. Ma tre giorni sono un nulla», scrive lei. «Ci siamo regalati una giornata di gioia». Una breve eternità, canterebbe Moustaki.

Giorello aveva una mente formidabile, oltre che di filosofia ne sapeva di matematica, si interessava di neuroscienze, di paleontologia, di fisica, di mitologia, di psicologia. E se la cavava molto bene anche tra Topolino e Dylan Dog. Ma non era un tuttologo, un intellettuale di moda.

Considerava la libertà il valore più grande che deve essere difeso e continuamente conquistato. A costo di passare per originale, o di starsene in disparte dalla ressa del dibattito pubblico italiano attuale, che non amava. Il suo libro Di nessuna chiesa era rivolto contro ogni sistema chiuso che si ritiene infallibile, sia esso di destra o di sinistra, religioso o ateo. Aveva una certa finezza aristocratica, un po’ british. Amava l’Irlanda, sua terra di elezione, si compiaceva delle sue distese verdi, delle scogliere che giocano con l’oceano ruggente, si compiaceva della pioggia, che è buona compagna di chi ama riflettere.

Sebbene avesse un rapporto non idilliaco con cellulare, computer e mezzi tecnologici e informatici, conosceva molto bene la scienza. Quindi era ben conscio dei suoi processi e dei suoi limiti. Sapeva che essa avanza per tentativi, per ipotesi, per verifiche e smentite, per nuovi tentativi, e i suoi successi sono sempre parziali. Ma questa provvisorietà del sapere lo entusiasmava.

Sapeva che la scienza può volgere al bene come al male, ma che il progresso non si può fermare, perché il desiderio di conoscere è stampato come marchio a fuoco nell’animo umano. «Qualunque strumento tecnico può essere pericoloso, qualunque meccanismo è stato stimolato dalla guerra sin da Archimede, non dobbiamo fare gli innocenti», scriveva Giorello.

La tecnologia porterà alla distruzione del pianeta? Lui non era pessimista. «L’uso politico della tecnologia va controllato e questo si coglie molto bene con i travagli della fisica del ‘900. Anche gli eventi che stanno accadendo sul pianeta ci dicono che la tecnologia è uno strumento di difesa; essa, quantomeno, può darci il tempo di scappare, di metterci in salvo di fronte agli eventi catastrofici naturali, pandemie comprese. Nessuna fiducia miracolistica nella tecnica (e non credo nemmeno alla favola della natura buona), ma senza tecnica non si potrebbe continuare in questo percorso affascinante».

Non era mai facile, banale, Giorello. Era ancorato alla sua visione laica e atea, ma sempre aperto all’interlocutore, curioso della novità di un punto di vista diverso, purché autentico. La grande lezione di tolleranza che ci lascia non è una cosa da poco, sia per chi condivide il suo pensare, sia per chi non è con esso in sintonia.

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