La lezione del cardinal Tettamanzi
«È meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo», diceva Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano dal 2002 al 2011, scomparso in questi giorni a 83 anni dopo una lunga malattia. Mi piace ricordarlo con questa frase, che è una perfetta sintesi della sua visione cristiana:
contano più i fatti e le opere delle parole e dei riti. Il suo episcopato è stato tutto all’insegna di una fede che si traduce in opere e in azioni concrete.
Sul primato delle opere, su una fede che è prima di tutto testimonianza, si è incentrato il suo messaggio spirituale; un messaggio di apertura e accoglienza, di integrazione delle differenze e di inclusione delle fragilità. Nella Chiesa deve esserci spazio per tutti.
Non poteva che conquistarci così, negli anni del suo episcopato, scendendo tra la gente, tra i poveri e gli ultimi per i quali aveva una spiccata predilezione. Non poteva che conquistarci così, con uno stile immediato e accessibile, dopo che per tanti anni eravamo stati educati al pensiero attivo e al pensiero sapiente del Cardinal Martini, suo predecessore.
Entrando nel Duomo di Milano, il 29 settembre 2002, e ricevendo il pastorale dalle mani di Martini, aveva subito indicato la necessità di rendere visibile la scelta cristiana: «Gli uomini e le donne del nostro tempo, anche se inconsapevolmente, ci chiedono di “parlare” loro di Cristo, anzi di farlo loro “vedere”. Essi hanno diritto alla nostra gioiosa e coraggiosa testimonianza di fede, come ne ha diritto la società intera».
Tra i suoi gesti profetici vorrei ricordare la grande attenzione alle comunità immigrate, a cui sapeva dedicare gesti di tenerezza e di attenzione, e la preoccupazione per il lavoro (con lui è stato istituito il Fondo Famiglia Lavoro, per aiutare le famiglie colpite dalla crisi).
Chiesa della ragione, chiesa della carità: sono queste le due anime che sempre si sono alternate a Milano, ravvisabili anche nei due successori Angelo Scola e Mario Enrico Delpini (da qualche settimana divenuto il nuovo arcivescovo), entrambe così necessarie ad un tempo che difetta di intelligenza e di cuore. Non posso che pensare, da milanese, che la nostra comunità ecclesiale e civile sia stata fortemente forgiata dalle queste sue guide spirituali.
Se oggi Milano è capace di sorprendere con gesti di apertura e di accoglienza – penso al grande impegno civile sul fronte dell’immigrazione – se sa dialogare in forme costruttive con la cultura laica e religiosa – penso alle molte occasioni di scambio culturale – molto lo deve ad una chiesa discreta ma aperta, capace di ascoltare e di mettersi in gioco, profondamente laica e insieme capace di spiritualità.