La leggenda del santo mietitore
Non mancano, in Calabria, ruderi di antichi monasteri e luoghi di culto abbandonati a causa di terremoti, frane e alluvioni che, lungo i secoli, hanno flagellato questa regione più di altre in Italia. Situati, in genere, in luoghi impervi di grande suggestione, spesso soffocati dalla vegetazione, sono meta solo di qualche appassionato che affronta disagi d’ogni genere per raggiungerli. A volte, però, alcune di queste testimonianze di fede dei nostri antenati rivivono: non solo perché gli organi preposti alla cura e salvaguardia dei monumenti hanno provveduto al loro restauro, ma per il ritorno in esse di una comunità religiosa.
È il caso del monastero ortodosso di San Giovanni Theristìs nei pressi di Bivongi, nell’Aspromonte reggino. Abbandonato nel 1600 per il trasferimento a Stilo dei monaci taglieggiati dai briganti, a inizio Ottocento divenne proprietà del comune di Bivongi in seguito alle leggi napoleoniche sui beni ecclesiastici. Passò poi nelle mani di diversi proprietari, che adibirono l’ormai cadente complesso ad uso agricolo. L’ultimo di essi lo donò nel 1980 nuovamente al comune di Bivongi, quando ormai dell’antico katholikon rimaneva in piedi solo metà della navata con l’abside e la cupola.
I lavori di ricostruzione del monastero (una iniziativa del comune perché tornasse ad essere luogo di preghiera per monaci provenienti dal Monte Athos) erano appena iniziati quando il 21 marzo 2001 fu visitato dal patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, che vi riportò una reliquia di san Giovanni Therestìs dall’omonima chiesa di Stilo. Le foto dell’evento mostrano le pareti diroccate puntellate dai tubi in ferro per ponteggi.
Oggi facciata e muri crollati sono stati rifatti con gli stessi materiali lapidei della parte superstite, ed è stato ricostruito anche il tetto a capriate di legno. Così rinata, bella nel suo isolamento sulla dorsale di un rilievo posto fra i fiumi Stilaro e Assi, San Giovanni Therestìs accoglie me e un gruppo di amici nella tarda mattinata di un sabato assolato.
Preavvisato del nostro arrivo, all’interno del sacro recinto ecco venirci incontro padre Giovanni, esile nella sua tonaca nera: il membro più giovane di una comunità monastica appartenente alla Arcidiocesi Romena Ortodossa d’Italia, qui insediata dal febbraio 1995 dopo il breve soggiorno dei monaci greci. Nella visita avremo lui come guida.
Appena entrati nel katholikon da una porticina laterale, ci sentiamo trasferiti in un altro luogo e in un’altra epoca dall’iconostasi, dalle icone davanti a cui ardono dei ceri, dalle solenni teorie di santi affrescati su una parete… Padre Giovanni precisa che questi affreschi sono opera moderna di iconografi greci ossequienti ai canoni della tradizione bizantina. A questo stile la chiesa unisce anche il normanno, come denota la planimetria non a croce greca ma latina, ossia con la navata lunga. Sia l’iconostasi che l’altare sono stati provvisoriamente spostati per consentire i restauri dell’abside con i relativi affreschi, quelli sì antichi (altri ne sono stati scoperti durante i lavori). Veniamo anche a sapere che i quattro monaci di questa comunità si sostengono con la produzione di candele, incenso e con i lavori agricoli. Le loro celle le abbiamo intraviste arrivando in auto: moderne casette in pietra incastonate sul dolce pendio sottostante il katholikon, in armonia col paesaggio.
Davanti alla reliquia del suo santo patrono donata dal patriarca Bartolomeo, e all’icona che lo raffigura mentre impugna un falcetto nella destra, il giovane monaco ci illustra ora la storia di san Giovanni Therestìs.
Nacque intorno al 995 a Palermo, dove la madre era stata condotta schiava dopo l’uccisione del marito durante un’incursione saracena sulle coste della Calabria. Crebbe quindi in ambiente musulmano, ma nella fede cristiana. A 14 anni, sollecitato dalla madre, riuscì miracolosamente a raggiungere il territorio di Stilo, patria d’origine dei suoi, dopo aver attraversato da solo in barca lo stretto di Messina.
A Monasterace venne condotto dal vescovo del luogo e interrogato. Chiedeva il battesimo, ma come credere a quel ragazzo in abiti moreschi? Messo alla prova, dal vescovo ora convinto gli venne imposto il suo stesso nome: Giovanni. Più tardi il ragazzo venne attratto dall’esempio di due asceti basiliani che vivevano nelle grotte intorno a Stilo. Malgrado la giovane età fu ammesso nella comunità e tanto si distinse per le sue virtù da esserne poi eletto abate.
Storie anche leggendarie si narrano di lui. Tra le altre, quella del ritrovamento del tesoro di famiglia; tesoro che, seguendo la regola di san Basilio, distribuì ai poveri. Molti altri gli episodi in cui si mostrò caritatevole verso i contadini del posto.
Il più famoso riguarda il miracolo da lui compiuto presso Robiano (Monasterace). Mentre andava a far visita ad un benefattore del monastero, Giovanni si sentì canzonare da due mietitori; invece di reagire, offrì loro ciò che aveva: vino e pane. Essi presero a mangiare, ma la quantità degli alimenti non diminuì. Grato a Dio per il suo prodigioso intervento, l’asceta si raccolse in preghiera. Intanto si scatenava un violento temporale che rischiava di distruggere le messi. I mietitori cercarono riparo sotto gli alberi, ma la preghiera intensa del monaco fece sì che, tornato il sereno, essi trovassero tutto il grano mietuto e già raccolto in covoni.
Da quel giorno Giovanni fu chiamato il Therestìs, ossia il Mietitore. Quando morì (1050) venne sepolto nella chiesa dedicata alla Madonna del Maestro, che all’epoca della dominazione normanna (XII secolo) prese con l’annesso cenobio il suo nome. Secoli dopo, per evitare ruberie dei briganti e pericoli di terremoti, il suo corpo venne traslato a Stilo (1662) insieme alle reliquie dei santi Ambrogio e Nicola suoi modelli di vita ascetica, e riposto nella chiesa ora detta di San Giovanni Nuovo.
Nel congedarci da questo luogo di contemplazione, ponte tra Oriente e Occidente, padre Giovanni accenna alla non lontana grotta dove si dice che il santo amasse ritirarsi in preghiera anche d’inverno, mortificandosi nelle acque gelide di una sorgente che lì scaturiva. Non abbiamo il tempo di visitarla, ma nel ritorno continua ad abitarmi quella che ormai io chiamo, parafrasando il racconto di Joseph Roth, “la leggenda del santo mietitore”.