La legge di Bilancio arriva in Parlamento
La legge di Bilancio è l’atto politico più importante di un governo perché decide come gestire le risorse dello Stato tra tasse, investimenti e indebitamento pubblico definendo le priorità che intende seguire. Il testo definitivo è quello che viene presentato, quest’anno, alle Camere lunedì 28 novembre per essere approvato entro il 31 dicembre. Un tempo abbreviato a causa delle elezioni politiche che hanno fatto slittare di un mese la presentazione della manovra che comunque non avrà problemi a passare l’esame di Camera e Senato grazie alla solida maggioranza di cui gode il governo Meloni.
Un sunto della legge è quello esposto sul sito del Ministero dell’Economia e Finanze mente sono circolate alcune bozze più o meno definitive che permettono una prima valutazione.
Si può dire che l’assenza di Mario Draghi da Palazzo Chigi si avverte dal giudizio pesante emesso sulla Finanziaria del governo Meloni da parte del presidente di Confindustria. «Manca una visione sulla lotta alla povertà, come su occupabilità e produttività» ha detto Carlo Bonomi con toni che ricordano le critiche rivolte agli esecutivi di diverso colore guidati da Giuseppe Conte.
La critica più dura è arrivata, ovviamente, dall’opposizione dei 5 Stelle e del Pd, oltre che dal sindacato della Cgil, ma il giudizio prevalente tra i commentatori è quello di una manovra di passaggio, improntata, come dice l’economista Carlo Stagnaro su Il Secolo XIX, a «prudenza, realismo e sostenibilità delle finanze pubbliche».
Esistono alcune linee di tendenza destinate ad emergere nel dibattito che avverrà entro fine anno nelle Camere sul disegno di legge di bilancio per l’anno 2023 in attesa della vere e proprie scelte strutturali che andranno a determinare il triennio 2023-2025.
Il punto che catalizza l’attenzione è la ridefinizione del Reddito di Cittadinanza. Non può essere ovviamente abolito ma verrà riformato a partire dal 2024. Nel frattempo nel 2023 il contributo verrà riconosciuto per soli 8 mesi (invece dei 18) alla categoria dei percettori definiti occupabili, cioè che siano idonei al lavoro dai 18 ai 59 anni e allo stesso tempo non abbiano a loro carico disabili, figli minori e persone ultrasessantenni. Una platea di utenti che oscillano, secondo le stime, tra 400 mila e 660 mila persone esposte al rischio di perdere il Reddito anche prima della scadenza se non partecipano ad un corso di formazione o rifiutano un’offerta di lavoro “congrua”. Di fronte ad un minor costo stimato di 743 milioni di euro per lo stato resta aperta la domanda sul destino di questi cittadini e delle loro famiglie nel momento in cui, come già avviene, negli 8 mesi non si risolverà il loro problema occupazionale. Sull’intera materia si spalanca un dibattito antico da approfondire a parte.
Il dossier più importante da affrontare resta la riforma delle riforme e cioè la questione del Fisco che Draghi ha iniziato ad impostare ben sapendo che sarebbe stato affrontato nella nuova legislatura. La destra è prevalentemente a favore della cosiddetta flat tax, cioè un’imposta unica che vale per tutti tranne esenzioni e correttivi vari. Per il momento il governo Meloni si è limitato ad aumentare un regime forfetario del 15% per i lavoratori autonomi e partite Iva con ricavi fino a 85mila euro (finora è stato di 65 mila). Un’indicazione di tendenza criticata anche da Acta, un’associazione degli autonomi e partite Iva, perchè non migliorerebbe le condizioni dei percettori con redditi bassi.
L’architettura fiscale di uno Stato è materia complessa che va disegnata nel suo insieme. Ed è ciò che avverrà nel prossimo con le scelte della solida maggioranza governativa, ma nel frattempo, come osserva Bonomi, «se riduci le tasse sugli autonomi, il lavoratore dipendente che ha la stessa retribuzione paga tre volte tanto» e vuole passare al regime di partiva Iva creando buchi nel bilancio dell’Inps.
Per i lavoratori dipendenti è previsto, in continuità con il governo Draghi, il taglio del cuneo fiscale del 2% fino a 35 mila euro di reddito l’anno e del 3% fino a 20 mila. In pratica si tratta di avere un netto maggiore stimato in busta paga che oscilla tra 10 e 20 euro netti al mese per un costo complessivo di 4 miliardi di euro a carico dello Stato.
I sindacati avevano chiesto un intervento più pesante perché l’inflazione e i costi ingigantiti delle bollette sono destinatea intaccare pesantemente il portafoglio delle famiglie. Per avere un termine di paragone si pensi ai metalmeccanici tedeschi che, dopo forti proteste, hanno spuntato in questi giorni un aumento salariale del 8,5% per i prossimi 2 anni e un contributo di 3 mila euro per le maggiori spese dovute alla crisi energetica. Se non aumentano le retribuzioni contrattuali devono diminuire le tasse collettive per rispondere ad un’emergenza destinata a fiaccare la resistenza di imprese e famiglie.
Per attutire il peso finanziario dei debiti erariali maturati negli ultimi anni è prevista una tregua fiscale con «la cancellazione delle cartelle esattoriali fino al 2015 che hanno un importo inferiore a 1.000 euro».
Su famiglia e natalità il governo lancia significativi messaggi in Finanziaria da verificare come premessa di futuri interventi più decisivi: nel 2023 l’assegno unico per la famiglie sarà maggiorato del 50% per il primo anno e di un ulteriore 50% per le famiglie composte da 3 o più figli. Viene inoltre previsto un mese in più di congedo facoltativo e retribuito, utilizzabile fino ai sei anni di vita del figlio e la riduzione dell’Iva per alcuni prodotti per bambini.
La vera svolta annunciata che si attende nel campo delle politiche familiari sarà l’introduzione del quoziente familiare destinata ad incidere nella riforma fiscale e che necessiterà di coordinarsi con la misura dell’assegno unico oltre agli investimenti effettivi sui servizi per le famiglie (asili nido). Un piano tutto da ridefinire e che non poteva entrare in una finanziaria attenta a non sforare i conti pubblici.
Dei 35 miliardi di euro previsti in più degli oltre 900 che costituiscono il bilancio statale, 21 sono infatti destinati a coprire i maggiori costi dell’energia di aziende e cittadini fino a marzo 2023. Resta l’incognita di ciò che potrà avvenire da aprile in poi. Per le famiglie è previsto un bonus sociale bollette che potrà essere percepito da coloro che hanno un Isee inferiore a 15.000 euro (prima era di 12.000).
Dei 2 miliardi di euro destinati in più al Servizio sanitario nazionale ben 1,2 sono destinati a coprire il costo dell’energia mentre la Federazione degli ordini dei medici lamenta un definanziamento dell’intero settore pubblico.
Tra le entrate si tratta di capire quanto potrà arrivare nelle casse erariali l’aumento nel 2023 della tassa sugli extraprofitti delle aziende dal 25 al 35 % che sarà applicata sugli utili delle società e non degli imponibili dell’Iva (ci sono pareri discordi in merito agli effetti di tale scelta).
Altro voce di entrata è costituita dalla diminuzione dello sconto delle tasse (accise) su gasolio e benzina che verrà pagato da coloro che fanno più largo uso degli automezzi. Una minore spesa per lo Stato è prevista dalla graduale riduzione percentuale della rivalutazione delle pensioni di importo superiore a 4 volte il trattamento minimo dell’Inps (525 euro).
Non sono previsti, e non poteva esserlo in così breve tempo, interventi strutturali nel campo pensionistico se non quella di poter andare in quiescenza nel 2023 con 41 anni di contributi e 62 anni di età anagrafica (quota 103). Ma è anche previsto per chi decide di restare a lavoro una decontribuzione del 10% grazie al rifinanziamento del bonus cosiddetto Maroni.
Indicazioni ambivalenti che non affrontano il grande problema della tenuta del sistema pensionistico con il calo demografico e la precarietà del lavoro giovanile di lunga durata. In questo senso la reintroduzione su larga scala del sistema del pagamento dei voucher, al posto di forme contrattuali stabili, comporta dei gravi problemi come fa notare Landini della Cgil perché «quando una persona deve costruirsi un percorso pensionistico con forme di lavoro sottopagate vuole dire che non avrà la pensione».
È prevedibile che sarà proprio la reintroduzione dei buoni lavoro (voucher) per i lavori definiti occasionali fino a 10 mila euro l’anno a costituire un punto di scontro sociale. Nel 2017 furono aboliti dopo la raccolta di milioni di firme da parte della Cgil.
Dal disegno complessivo della manovra definita dal governo Meloni si comprende, infine, il posto strategico di crescita economica e occupazionale affidato alle grandi opere infrastrutturali che ricadono sotto la competenza del ministro Matteo Salvini. Il criterio evidenziato dalla Meloni è stato infatti quello di «non disturbare chi vuole lavorate e distribuire ricchezza».
Grande enfasi viene data, in questo senso, alla realizzazione del ponte sullo stretto di Messina rimesso in gioco già dal governo Draghi. Si tratta di una struttura emblematica che è stata ed è oggetto di contestazione da parte del mondo ambientalista come opera inutile e dannosa a dispetto delle vere urgenze costituite dagli interventi contro il dissesto idrogeologico del Paese. Anche Bonomi di Confindustria, concorda sulla necessità delle infrastrutture ma fa notare che esistono altre priorità come, ad esempio «da Palermo a Catania oggi ci vogliono tre ore. Abbiamo un problema sul traforo del Monte Bianco, che sarà chiuso tre mesi all’anno per i prossimi 18 anni e questo impatterà sulla Valle d’Aosta e tutto il Nord Ovest ne soffrirà».
Insomma la manovra finanziaria per il 2023 fa emergere tanti elementi per un dibattito che può portare ad un nuovo patto condiviso sulle urgenze di un Paese alle prese con le conseguenze dell’epidemia e della guerra in Ucraina, oppure aprire numerosi contenziosi su importanti fronti sui quali si potrà misurare la visione complessiva e organica delle diverse forze politiche e sociali in Italia.